Nella giornata di ieri sono accadute due cose sono che segnalano l’esistenza in vita di una politica riformista. Del primo accadimento, il più mediatico, è stato protagonista Carlo Calenda che si è recato a Palazzo Chigi per discutere con la presidente del Consiglio, accompagnata da uno stuolo di ministri, della legge di Bilancio.
Il leader di Azione ha trovato disponibilità al confronto, qualche punto di accordo, qualche altro di disaccordo, com’è normale. Calenda ha fatto politica nel senso migliore della parola: ha cercato di migliorare una legge. «Se l’opposizione invece di andare in piazza presentasse provvedimenti migliorativi forse sarebbe un Paese normale. Invece continuiamo a essere un Paese machiavellico di cui non ci capisce niente».
Ora è chiaro che Calenda ha interesse nello stressare l’immagine dell’incontro con Meloni in contrapposizione con le piazze del Partito democratico e di Giuseppe Conte, ma al di là della propaganda alla fine bisognerà valutare cosa concretamente abbia reso di più, se la legittima protesta di piazza o il realismo che impone anche il confronto con il governo, come del resto è sempre accaduto: quanti milioni di volte i leader dell’opposizione sono andati dal presidente del Consiglio di turno?
L’altro fatto di ieri è il “Manifesto laburista”, pubblicato sul Foglio, redatto da un gruppo di persone di diversa estrazione politica e sottoscritto per ora da diversi esponenti liberal del Pd veltroniano come Marco Bentivogli Stefano Ceccanti, Giorgio Gori, Giorgio Tonini, Enrico Morando, Valeria Mancinelli, Tommaso Nannicini, Pietro Ichino. Non è nata una nuova corrente ma un polo di idee non accademico ma politico, questo sì.
I “laburisti” di fatto entrano nella dinamica congressuale dalla porta principale, quella dei contenuti, senza fare sconti circa la deriva del partito di Enrico Letta che sta proseguendo con una campagna che «rischia di impantanarsi presto nelle paludi di vecchi logiche»: quelle – diciamo noi – della lotta personalistica sulla base di veri incrociati che poco o nulla hanno a che fare con il confronto e lo scontro sulle idee (lo spettacolo è tale che consiglieremmo a una outsider come Elly Schlein di starne fuori).
Il Pd deve costruire una proposta politica – scrive Bentivogli – recuperando per questa via una rappresentanza soprattutto del mondo del lavoro, una proposta «incarnata da un leader» che lanci la sfida per la guida del governo, quando sarà.
Ci sono dunque molti retaggi del veltronismo, compreso un aggiornamento della vocazione maggioritaria, in questo documento che vuole contribuire «a una svolta modernamente “laburista” dell’orientamento del Pd» e che ha l’ambizione di colmare un vuoto teorico e politico del Congresso – in effetti è l’unico testo scritto di cui si abbia notizia – considerato come «un’occasione che verrebbe sprecata se esso non si aprisse con una reale disponibilità a superare il patto di sindacato interni al gruppo dirigente, malcelato dietro il finto conflitto tra correnti privo di fondamento ideale».
Vedremo se e come risponderanno i candidati veri o finti alla segreteria. Per il momento si vede solo tanto fumo e molta tattica. Tutti puntano a sbarrare la strada a tutti. La fase è delicatissima, il terrore che corre sul filo del Nazareno è sempre quello della rottura interna, ben sapendo che il collante che tiene insieme il partito si sta liquefacendo e che il rischio di una separazione stavolta è serio. Ecco perché si continua a nascondere la polvere sotto il tappeto di un finto unanimismo.
Succede anche a livello parlamentare: mentre il Governo, un po’ furbescamente, farà un decreto confermando l’aiuto militare all’Ucraina così da mascherare le proprie divisioni, le opposizioni si baloccano ciascuna con le proprie certezze e il Pd non riesce nemmeno a scrivere la parola «armi» per evitare spaccature al proprio interno. Altro che vocazione maggioritaria. Ma la notizia è che forse è la volta buona che la politica vera si mettono a farla i riformisti, dentro e fuori il Pd, almeno succede qualcosa che non sia solo lotta di potere.