Prendiamo la parola “pace” (capisco quanto questo concetto possa essere effimero e astratto): che cosa intende il mondo parlando della pace? Sembrerebbe che si parli di far finire la guerra, di far finire il conflitto militare, di arrivare al punto in cui tace l’artiglieria e arriva il silenzio.
Sembrerebbe proprio che questo concetto debba metterci tutti d’accordo. Perché, alla fine, noi ucraini che cosa vogliamo più di tutto? Ovviamente vogliamo la fine della guerra. Ovviamente vogliamo la pace. Ovviamente vogliamo la fine dei bombardamenti.
Io, la persona che vive al diciottesimo piano nel centro di Kharkiv da dove posso vedere il lancio dei missili dalla vicina Belgorod, vorrei con tutto il mio ardore che finissero i bombardamenti, che finisse la guerra, che si tornasse alla normalità e al suo scorrere naturale. Quindi perché la parola “pace” pronunciata da certi leader europei spaventa gli ucraini? Non perché quelli che la pronunciano stiano negando la pace all’Ucraina, ma perché gli ucraini sentono che essi stanno chiedendo a loro, alle vittime di deporre le armi.
I cittadini pacifici di Bucha, Hostomel’ e Irpin’ non avevano armi, ma questo non li ha salvati da una morte terribile. Anche gli abitanti di Kharkiv che ogni giorno si trovano sotto le bombe russe non hanno le armi in mano. Quindi che cosa dovrebbero fare quelle persone secondo i simpatizzanti della pace veloce a qualsiasi costo? Dove, secondo loro, passa la linea tra sostenere la pace e non sostenere la resistenza ucraina? Secondo me, c’è qualcuno che, quando parla di pace nel contesto di questa guerra sanguinosa e drammatica iniziata dalla Russia, non vuole notare una cosa semplice: non c’è pace senza giustizia.
Ci sono varie forme di conflitto congelato, ci sono i territori temporaneamente occupati, ci sono le mine a rilascio di pressione camuffate da compromesso politico, ma la pace, una vera pace che dia un senso di sicurezza e di prospettiva non può esistere senza una giustizia.
Quella parte di europei (che non è la parte maggioritaria, ma è una parte che esiste) cerca di colpevolizzare gli ucraini per la loro voglia di non arrendersi e dà loro di guerrafondai e di radicali per rimanere nella propria comfort zone. Ma con una tale proposta oltrepassano qualsiasi limite etico. E questo non è un problema degli ucraini, questo è un problema del mondo intero e del suo dimostrarsi pronto (o non pronto) a ingoiare l’ennesimo male, totale e incontrollabile per soddisfare un falso e dubbio pacifismo.
Questo falso pacifismo che si appella a gente che cerca di proteggere le proprie vite e questo incolpare le vittime, questo cambiare gli accenti, questo manipolare servendosi dei vecchi e buoni slogan pacifisti per alcuni si sono rivelati dei modi molto convenienti di scaricare le proprie responsabilità. Invece tutto è molto più chiaro: noi stiamo aiutando il nostro esercito non perché vogliamo la guerra, ma proprio perché vogliamo tanto la pace. Quelli che invocano una pace immediata ci propongono, però, una maniera gentile, quasi non invadente, di capitolare. Però la capitolazione non è la strada per tornare alla nostra vita pacifica e per ricostruire le nostre città.
Probabilmente la capitolazione degli ucraini aiuterà gli europei a pagare un prezzo più basso nelle bollette. Ma come si sentiranno quegli europei quando capiranno (perché sarà impossibile non capirlo) che il caldo delle loro case è stato pagato dalle vite e dalle case distrutte di persone che come loro volevano vivere in pace nel proprio Paese?
(Tratto da un discorso pronunciato da Serhiy Zhadan il 23 ottobre 2022 alla cerimonia di assegnazione del Premio per la pace dell’Associazione tedesca degli editori. Il testo integrale sarà pubblicato su Linkiesta Magazine in edicola a fine novembre)