Maggiore flessibilità e più tempo per ridurre il debito. Ma in cambio di riforme e investimenti. Il nuovo Patto di stabilità e crescita dell’Unione europea segue il “modello Recovery”, spiega La Stampa, con obiettivi su misura per i singoli Paesi, che dovranno essere negoziati con Bruxelles e poi rispettati. Questa è la strada che la Commissione intende percorrere per la riforma del Patto, che sarà presentata ufficialmente mercoledì 9 novembre, e che punta a superare le attuali regole.
Ma si tratta solo dell’inizio di un iter che potrebbe essere lungo. Tutto dipenderà dai negoziati al tavolo dei governi. Il primissimo confronto all’Eurogruppo, che segnerà l’esodio del neo-ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, è previsto per lunedì 7 novembre. Il titolare del Tesoro sarà chiamato a descrivere gli orientamenti di bilancio che costituiranno la manovra del governo italiano, assicurando ai suoi colleghi che la finanziaria sarà prudente.
La riforma non cancellerà i parametri del 3% nel rapporto deficit/Pil e del 60% nel rapporto debito/Pil, ma nei fatti ci sarà un loro superamento. La Commissione proporrà percorsi di aggiustamento per ridurre il debito che saranno tarati su ogni singolo Paese e non saranno più su base annua, ma dureranno quattro anni. Gli Stati potranno chiedere più tempo per ridurre il debito, fino a un massimo di sette anni, ma in cambio dovranno impegnarsi a portare a termine una serie di riforme e investimenti compatibili con le raccomandazioni del semestre europeo e con le grandi priorità dell’Unione europea, come la transizione ecologica e quella digitale. I singoli piani dovranno poi essere approvati dal Consiglio, cioè dagli altri governi, mentre la Commissione verificherà ogni anno il rispetto dei target.
L’altra novità consiste nel fatto che, in caso di non rispetto, la procedura per disavanzo eccessivo (Edp) scatterà con un certo automatismo a seconda del livello di sostenibilità del debito del Paese in questione. I margini di discrezionalità della Commissione saranno dunque ridotti, ma i Paesi potranno uscire dalla procedura rimettendosi in carreggiata con il rispetto degli obiettivi.
La Commissione è convinta che questa riforma porterà a una netta semplificazione delle regole, anche perché il percorso di aggiustamento dei conti pubblici non verrà più misurato attraverso il deficit strutturale, ma con il parametro della spesa primaria netta. Il valore del deficit strutturale (ossia il disavanzo calcolato al netto del ciclo economico e delle misure una tantum) è stato spesso criticato dai vari ministri che si sono susseguiti al Tesoro perché considerato poco indicativo e perché calcolato attraverso l’output gap, che è la differenza tra il prodotto interno lordo effettivo e quello potenziale.
I governi non si limiteranno a subire regole uguali per tutti ma, esattamente come succede con il Recovery, potranno concordare un percorso di riforme e investimenti. Le concessioni su questo fronte, però, daranno luogo a un’applicazione più severa.
La Commissione ha scelto di non mettere subito sul tavolo una proposta legislativa: i contorni della riforma verranno inseriti in una comunicazione che, se sostenuta dai governi, all’inizio del prossimo anno verrà tradotta in una vera e propria proposta di regolamento. Un passaggio tutt’altro che scontato. Il governo tedesco, e in particolare il ministro delle Finanze Christian Lindner, ha già fatto trapelare il suo malumore per la proposta di riforma, mentre l’Italia considera il superamento dei vecchi vincoli un passo nella giusta direzione.
Ma c’è anche un’altra richiesta che arriva all’Ue da parte del ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire. «Il vero rischio per l’Europa è il declino industriale. Ormai l’Unione europea rappresenta il 17% dell’economia mondiale. Nel 1990 era il 25%. Anche la Cina oggi rappresenta il 17% dell’economia mondiale, ed era il 3% nel 1990. Il rischio reale per l’Europa è di restare indietro dal punto di vista tecnologico, industriale ed economico, lasciando campo libero a Stati Uniti e Cina. Dobbiamo darci i mezzi di reindustrializzare l’Europa, di restare una grande potenza industriale mondiale», dice al Corriere. In più «i massicci sussidi forniti dall’Inflation Reduction Act (Ira) americano e la concorrenza cinese, sussidiata in modo altrettanto pesante, rischiano di allargare ulteriormente il distacco. Quindi dobbiamo reagire in fretta. Chiedo una risposta coordinata, unita e forte dell’Unione europea nei confronti dei nostri alleati americani. Solo con la fermezza potremo ottenere dei risultati».
«Ci aspettiamo che la Commissione europea avanzi proposte ferme e proporzionate. Ciò può comportare un’affermazione più rigorosa dei nostri interessi ambientali, dei meccanismi di preferenza europei (nel commercio internazionale, ndr) o un’accelerazione dell’uso degli strumenti europei di reciprocità, come il regolamento contro gli aiuti di Stato in Paesi terzi. Ma il secondo asse, ovviamente, far scendere i prezzi dell’energia in Europa», prosegue. Ormai «certe grandi aziende straniere che volevano insediarsi in Europa esitano, incerte tra aprire stabilimenti in Europa o in America. In alcuni casi, il peso dei sussidi proposti dall’amministrazione Biden è da quattro a dieci volte il massimo che la Commissione europea autorizza. In Francia, secondo le nostre prime stime, sono in gioco 10 miliardi di euro di investimenti e migliaia di posti di lavoro nell’industria».