Abbiamo già riflettuto su come la parola “sostenibilità” sia troppo spesso abusata a consumo di strategie di comunicazioni mendaci. Questa moda “markettara” è partita dal greenwashing (“ambientalismo di facciata”) per poi estendersi rapidamente alle altre due dimensioni fondanti dello “sviluppo sostenibile”: quella sociale e quella di governo societario.
Così troviamo aziende insignite del titolo “Best Place To Work” in cui i dipendenti – sempre sorridenti e rilassati nelle immagini promozionali – lavorano dodici ore al giorno; o imprese fautrici delle quote rosa che festeggiano la conquista della gender equity quando la strada per l’equality è ancora lunga; per non parlare di realtà in cui la corruzione e la concussione vengono bonariamente condonate come peculiarità folkloristiche.
Al contrario, i giovani protagonisti del panorama enogastronomico italiano sono sinceramente coscienti di quanto sia cruciale affrontare le tematiche relative alla sostenibilità con l’integrità e la responsabilità che meritano, riconoscendo in esse un’occasione per creare valore, a beneficio di tutte le parti coinvolte: dipendenti, consumatori e – ultimo ma non ultimo – l’ambiente. Ma soprattutto riconoscono l’importanza di ciascuna delle tre lettere – Esg – che rappresentano i criteri su cui misurare l’impatto ambientale (Environment), sociale (Society) e di Governance di un’impresa che opera sul mercato.
Una delle rivelazioni del Festival di Gastronomika è stato proprio il rinnovato interesse per le persone e per le relazioni che sono alla base di quella “S” troppo spesso trascurata o messa in secondo piano rispetto alle (doverose) attenzioni riservate alla salvaguardia ambientale.
Di necessità virtù? Anche. Perché con la pandemia i dipendenti della ristorazione hanno riscoperto il piacere di avere una vita fuori dal lavoro, e questa nuova consapevolezza li ha spinti talvolta a cambiare mestiere o a pretendere qualcosa in più, sia economicamente che in relazione all’esigenza ormai irrinunciabile di trovare un giusto equilibrio tra vita privata e lavorativa. Di qui il bisogno degli imprenditori di adeguarsi alle nuove dinamiche, per restituire appeal al mondo della ristorazione, attraendo nuove risorse senza sacrificare gli standard qualitativi. Alcuni hanno affrontato la sfida cercando di aziendalizzare i processi legati alla gestione del personale, avviando regimi di turnazione per garantire la serata o il weekend libero, e introducendo l’uso del badge per tutelare il rispetto delle otto ore lavorative, come ci ha raccontato Ilaria Puddu nel panel “Da dipendente a risorsa”.
Ma sono scelte che non tutti possono permettersi, soprattutto in contesti più piccoli, come è emerso nel tavolo “Micro è bello” moderato dalla giornalista Federica Cocchi. Renato Nassini, co-founder di Tondo, forno artigiano nel quartiere Isola di Milano, lancia una provocazione ai colleghi (micro)imprenditori: «Come fate a conciliare i conti con la felicità del dipendente in un settore che non l’ha mai fatto?». E ammette per primo le difficoltà proprie del mondo della panificazione, che per via dei lunghi tempi di lievitazione non consente le canoniche otto ore lavorative; l’alternanza delle mansioni potrebbe essere un buon espediente, ammesso che si disponga del personale sufficiente.
La soluzione di Sibilla Zandonini, titolare del panificio artigianale The Rising Bakery a Cesano Maderno, è all’atto pratico molto semplice: «Finché riesco a fare tutto da sola evito di assumere dipendenti», eludendo all’origine le difficoltà conseguenti, anche se questo significa dover contare esclusivamente sulle proprie forze (e su quelle del suo partner, Nuccio). Ma ricorda bene cosa si prova a stare dall’altro lato della barricata, quando da chef dipendente si trovava a subire in prima linea anche le ansie e le preoccupazioni dei titolari.
Differente è la posizione di Lea Pedrinella, titolare dell’enoteca con cucina O|nest a Milano, che conta una decina di dipendenti a cui cerca di garantire giornate lavorative di otto ore – a meno di emergenze – ripensando a quando nel suo lavoro precedente combatteva per raggiungere il tanto agognato work life balance. «Da aprile abbiamo deciso di chiudere per due giorni a settimana, che spesso sfruttiamo per fare dei viaggi insieme, o delle esperienze di degustazione. Non è il Mulino Bianco e non lo sarà mai, ma questa scelta ha avvicinato persone, anche formate, che operavano nell’alta ristorazione, e che ora cercano un ambiente lavorativo di livello senza dover rinunciare a una vita sostenibile».
Anche Beatrice Busatta, pasticcera e titolare di Babu Dolce e Salato a Vicenza, ha deciso di impegnarsi in questa direzione, memore di quanto abbia dovuto sacrificare della sua vita privata nella precedente esperienza lavorativa. Ha dunque deciso di assumere una persona in più per tenere il locale aperto sette giorni su sette senza dover privare nessuno del giorno di riposo settimanale. «E questo dà un ritorno, quando devi chiedere uno sforzo in più. Le persone si sentono partecipi, ognuna con le sue idee, e si sentono gratificate».
L’engagement del dipendente si rivela dunque la chiave di volta, e non deve riguardare solo la parte “divertente” del lavoro – come lo studio del menu – osserva Federico Sordo, chef titolare del ristorante DistrEat sul Naviglio Pavese: «Il coinvolgimento delle tue persone deve avvenire anche nella realtà delle cose: costi, difficoltà, bollette». Diventa così più semplice motivare scelte talvolta sacrificanti, generalmente incomprensibili o non condivisibili dai dipendenti di oggi.
«Un tempo il dipendente era contento di lavorare anche quattordici o sedici ore al giorno per imparare. Ora contano le ore e badano allo stipendio, trascurando quello che tu dai a loro», commenta Alban Ahmeti, chef del ristorante pizzeria Pian dei Boschi a Pietra Ligure. Proprio per questa ragione, secondo Federico, trasparenza, empatia e carisma sono gli ingredienti principali per la ricetta dell’intesa vincente, unitamente alla capacità di trasmettere quell’ambizione che ti dà la forza per sopportare i sacrifici.
Non bisogna però essere ipocriti, perché soprattutto per le imprese di dimensioni ridotte la sostenibilità sociale deriva direttamente da quella economica, sostiene Diego Turati, che dopo l’esperienza lavorativa in Danimarca sta per aprire a Lodi una bottega con cucina. Il ritorno in Italia è stato traumatico da questo punto di vista: «In Danimarca lavoravo quattordici giorni al mese, e durante il lockdown i dipendenti sono stati pagati e lo stato ha supportato gli esercizi commerciali in modo che potessero ripartire senza costi e senza debiti. Tornato in Italia ho ritrovato le tristi vecchie abitudini».
L’aumento dei costi si conferma ancora oggi una delle principali preoccupazioni, soprattutto per le attività micro: la sfida quotidiana è trovare una materia prima di qualità a prezzi onesti – per il titolare e per il consumatore – con l’obiettivo di offrire una proposta accessibile a tutti e guadagnando il giusto, tutelando al contempo il personale, che va conquistato e trattenuto giorno dopo giorno.