ControtendenzaMicro imprese S.r.l., speranze, risultati e libertà

Al Festival di Gastronomika abbiamo ascoltato le storie di giovani (micro)imprenditori di successo, che si sono confrontati, consigliati e raccontati tra ostacoli e soddisfazioni

Foto Gabriella Clare Marino - Unsplash

Proprio le grandi città, quelle in cui la spesa si fa all’ipermercato e che hanno sostituito il piacere di tastare frutta e verdura con la comodità del Clicca e Vai, pullulano sempre più di progetti piccoli: persone singole, giovani coppie o gruppi di amici danno vita a produzioni di nicchia e microimprese, spinti dalla voglia di coronare un percorso di studi nel settore gastronomico o dal coraggio di reinventarsi dopo un passato alla mercé dei sogni altrui. Ma il gioco vale la candela? Lo abbiamo scoperto al tavolo numero 3 del Festival di Gastronomika del 5 ottobre, moderato dalla giornalista Federica Cocchi.

«Il “micro” è l’unica strada percorribile per instaurare un rapporto diretto con la comunità circostante», afferma con decisione Silvia Cancellieri, titolare di Tondo, forno artigiano nel cuore del quartiere Isola di Milano. Un laboratorio più grande, certamente più conveniente dal punto di vista della gestione dei costi, non consentirebbe il dialogo con il cliente, facilitato da un laboratorio a vista. «Inoltre, in una piccola realtà posso controllare personalmente tutte le fasi della filiera di produzione, a partire dalla scelta della materia prima direttamente dal produttore».

E se Silvia gioca a tetris con il suo socio Renato Nassini, in un locale in cui tutto è incastrato al centimetro, Sibilla Zandonini non si lamenta degli spazi del suo panificio artigianale a Cesano Maderno: The Rising Bakery sforna ogni giorno prodotti dolci e salati senza glutine, senza amido di frumento deglutinato e senza lattosio. Lei e Nuccio, partners nella vita e nel lavoro, si definiscono “artigiani del pane”, e quando hanno dovuto eliminare il glutine dalla loro alimentazione si sono scontrati con una scarsa offerta di alternative fresche e genuine.

Così hanno deciso di mettersi in gioco in prima persona: «Il nostro obiettivo è offrire qualcosa di buono a tutti, celiaci, allergici, intolleranti e curiosi!», e cavalcare la curiosità dei clienti è una delle sfide più grandi, dal momento che propongono qualcosa di inevitabilmente diverso sul mercato, anche se con meno concorrenza. Continua Sibilla: «La dimensione micro ci consente di essere imperfetti, di uscire dagli schemi di pretesa di perfezione e di standard del consumatore. Il contatto umano ti consente di rischiare e di veder riconosciuto il lavoro che fai, nella sua genuinità, perché il cliente può vedere con i suoi occhi l’artigiano che fa l’artigiano».

Anche i fornitori sono “micro”? «Assolutamente sì», esclama con fierezza e convinzione Lea Pedrinella, che insieme a Lorenza Licciardello festeggia a ottobre il terzo compleanno di O|nest, un’enoteca con cucina (e giardino segreto) a Milano. «E sono diventati amici, vengono per colazione, a pranzo o anche solo per un caffè, che diventa un’occasione per scambiarsi idee e conoscere meglio i prodotti che andiamo a raccontare ai nostri clienti quando spieghiamo il piatto, cercando di trasmettere quell’emozione che noi per primi viviamo quotidianamente». E proprio questo è il loro punto di forza: essere quel ponte tra fornitori e consumatori in grado di rappresentare il concetto di “ristorazione vicina” a cui aspirano.

Lavorare con i piccoli produttori, però, non è semplice, come conferma Federico Sordo, chef titolare di DistrEat, un ristorante ricercato senza essere snob, che si affaccia sul Naviglio Pavese. La ricerca delle (migliori) materie prime è una parte fondamentale del loro lavoro, ma «la scelta di affidarsi a realtà piccole può avere dei risvolti negativi, spesso legati a politiche di vendita trapassate, che non garantiscono alcuna continuità». Anche la gestione dei costi diventa più complicata: trovare pollo e uova decenti senza spendere e far spendere un patrimonio è quasi impossibile, lamenta Federico. «Un giorno trovai un allevatore che vendeva un buon pollo ruspante, allevato a terra all’aperto, a poco più di 4 euro al chilo, ma con un ordine minimo di 200 euro. Quanti coperti dovrei servire per acquistare 50 chili di pollo?»

E quando si parla di aumento di costi «incomincian le dolenti note», perché questa è senza dubbio una delle maggiori preoccupazioni, tanto per noi clienti quanto per gli imprenditori (di tutte le “taglie”). Acquisire competenze finanziarie e gestionali diventa dunque essenziale per sopravvivere: «Da dipendente non conoscevo nulla all’infuori di quello che c’era sul mio tagliere. Non avevo idea di quanto dovessi guadagnare e di quanto dovessi far pagare. Quindi mi sono iscritto ad un master di Food&Beverage Management», racconta Federico. La formazione è sicuramente un buon punto di partenza, ma in questo contesto di crisi incalzante non è sufficiente. «Il rialzo dei prezzi è l’unica soluzione, accompagnato da un lavoro di sensibilizzazione per aumentare il valore percepito dal cliente: deve essere consapevole che sta pagando il giusto», continua Sordo.

Saper comunicare il valore di quello che si fa è un’altra grande sfida di chi gioca “in piccolo”, soprattutto se si inserisce in un contesto già apparentemente saturo con un progetto innovativo. E dover gestire anche i social, oltre a tutto il resto, può rivelarsi troppo faticoso. «Io sono seguita da un’agenzia sin dall’apertura», confessa Beatrice Busatta, pasticcera e titolare di Babu Dolce e Salato a Vicenza, che propone un’offerta all-day: dalla colazione alla pausa pranzo, dalla merenda all’aperitivo, e il weekend brunch! Diversificare l’ha aiutata ad avere una certezza economica. «In una città piena di pasticcerie storiche, molto legate alla tradizione, l’agenzia mi ha aiutato a dare un’identità al locale. Anche se la paura è sempre quella che un’immagine troppo “precisa” tolga spontaneità».

Anche Laurel Evans, autrice, volto televisivo, blogger, nonché l’americana in cucina più amata d’Italia, consiglia di evitare le grandi agenzie che applicano la stessa formula a ogni prodotto e ogni locale: «Scegliete delle persone che conoscano lo spirito del luogo, anche se non sono professionisti. Basta che sappiano smanettare e abbiamo un po’ più di tempo. La comunicazione troppo “pettinata”, fatta con lo stampino, toglie bellezza al micro». Il social cerca di raccontare il lavoro e la fatica che c’è dietro, ma vedere la farina nei capelli, le mani che lavorano nel laboratorio a vista, ascoltare dalla viva voce il sacro fuoco che alimenta chi lavora con passione ogni giorno, è un’altra cosa.

In questo mondo così spersonalizzato, dove le persone sono isolate in una realtà virtuale che spesso è connessa solo in apparenza, il contatto umano ci scalda il cuore. E proprio questo era il proposito di Alice Bernardi, con un passato da interprete e traduttrice, quando ha deciso di aprire il Filonificio, un microforno nel cuore di Ferrara, in cui produce pane e lievitati dolci e salati con “solo lievito madre, amore, ingredienti semplici e biologici”. Alice, che ha sfornato il suo primo filone da home baker, crede fortemente nel sold-out, perché fare “poco” (rispetto ad una grande realtà) è una scelta obbligata dal punto di vista della sostenibilità, ma al contempo permette di porre più cura e attenzione a quello che si fa.

E noi consumatori non possiamo che essere grati a questi giovani e audaci professionisti che scelgono di investire anima e cuore in una passione che hanno reso lavoro. Perché soprattutto oggi, come osserva Laurel, «aprire un’attività micro è un generoso atto sociale».

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