Bitcoin, criptovalute, blockchain: sembra che nell’ultimo periodo non si parli d’altro… E quando dico «ultimo periodo» intendo proprio gli ultimi anni, perché ricordo ancora l’incontro all’Università di Roma, la prima volta che ne parlammo nel 2014: io, il professore e una ventina di studenti che avevamo adescato in cambio di qualche credito; per non dire ai tempi della mia laurea, quando non solo non si studiavano ma non si potevano quasi nominare. Ovvio: c’è la pandemia, c’è la guerra (anche se sarebbe più corretto dire “guerre”), ci sono diversi fenomeni che nel bene e nel male stanno segnando la nostra epoca. Eppure, se guardiamo le parole più cercate sui motori di ricerca internazionali «bitcoin», «criptovalute» e «blockchain» sono saldamente ai primi posti.
Ne parlano tutti. Qualcuno bene, con cognizione di causa. Molti ripetono a macchinetta ciò che hanno trovato in rete o hanno sentito al bar o dagli amici. Alcuni li considerano una specie di fenomeno di costume, neanche fossero i tulipani nell’Olanda del Seicento o le dot com degli anni Novanta, bolle destinate a scoppiare quando si spingono troppo in là. Altri sono convinti che sia solo l’inizio, il primo passo di un cambiamento epocale, e che – analisi alla mano – il loro impatto sulle nostre vite, le nostre abitudini e la nostra quotidianità sarà quindici volte superiore rispetto all’avvento di internet; e chi c’era allora, al tempo dei modem 56k o anche prima, può confermare quanto la vita fosse diversa: ecco, quindici volte di più.
Su una cosa, però, sono tutti d’accordo: non hanno la minima idea di chi sia dietro a un sistema tanto complesso e rivoluzionario. In altre parole: chi sia Satoshi Nakamoto, l’ideatore di Bitcoin.
Che non è solo colui – o coloro – che ha – o hanno – perfezionato e per la prima volta reso pubblica la tecnologia blockchain. Che non è solo un “genio”, un uomo o una donna che ha saputo guardare oltre e ha avuto sì un’idea, ma è anche riuscito a realizzarla; perché è questo che fa il vero genio, non si limita a immaginare, bensì rende reale ciò che sogna, plasmando il mondo in base alla sua visione. Ma è anche uno degli uomini più ricchi del pianeta, uno che se utilizzasse anche solo una parte dei bitcoin che ha accumulato potrebbe saldare il debito pubblico di Bulgaria, Estonia e un’altra decina di Paesi, spostando letteralmente gli equilibri mondiali.
E invece non lo fa né lo ha mai fatto: in tutti questi anni non ha toccato un bitcoin. E, ancora una volta, nessuno sa perché.
È ricco di suo e perciò non ne ha bisogno? Non gli interessano i soldi? È un benefattore che li donerà al momento opportuno? Oppure sta aspettando il momento giusto per uscire allo scoperto e passare all’incasso? O magari non li può usare perché, ad esempio, ha scordato la password, come potrebbe capitare a uno qualsiasi di noi? Oppure è semplicemente morto?
Il fatto è che non solo non usa quei soldi, ma in un mondo dove tutti vogliono mostrarsi e apparire, lui fa l’esatto opposto: scompare. Il 26 aprile 2011 scrive un ultimo messaggio al suo erede designato, Gavin Andresen, e da allora non se ne sa più niente. Nessuna email.
Nessuno scambio. Nessuna dichiarazione.
Svanisce, anche se torna fuori praticamente ogni volta che ci imbattiamo in qualcosa che vada al di là della semplice quotidianità. Parliamo di crisi del mercato finanziario? Parliamo (anche) di lui. La guerra, la crisi energetica, i viaggi spaziali, la Cina, la Corea del Nord, il Venezuela, El Salvador…? C’è sempre lui di mezzo. Eppure non c’è mai.
Ma, allora, chi è davvero Satoshi Nakamoto?
Esistono decine di teorie, di ricostruzioni più o meno attendibili, e partono tutte dai medesimi presupposti, dalle poche certezze che abbiamo, quelle evidenze che lui stesso ha fornito (forse proprio per portarci sulla pista sbagliata).
Ovvero, cosa sappiamo? Quali sono questi punti fermi?
Il nome è uno pseudonimo di chiara ispirazione giapponese, laddove satoshi significa «saggezza», naka «strumento» e moto «creazione». C’è un gruppo di persone, di cui si fida o si è fidato, con cui ha definito il progetto. E una serie di costanti ricorrono nei suoi messaggi, anche solo nel modo in cui scrive (ad esempio, la scelta di alcuni termini o il doppio spazio dopo il punto).
Poi? Poco altro, e via via lo vedremo.
Sta di fatto che a partire da queste “certezze” si è scatenata una sorta di caccia al tesoro globale, prima all’uomo e poi propriamente al tesoro che possiede, che ha coinvolto hacker, giornalisti, esperti di finanza di mezzo… anzi, di tutto il mondo. Che, però, non ha portato da nessuna parte.
Non significa che le ipotesi siano sbagliate a priori o le ricerche siano fatte male, ma, in genere, non ottengono altro risultato che la conferma dell’assunto dal quale partivano; come se forzassero la conclusione, scegliendo alcune “carte” e trascurandone apposta altre, pur di trovare Satoshi.
Gian Luca Comandini, L‘uomo più ricco del mondo, Rizzoli, 18 euro, 176 pagine