Il debito pubblico è passato ampiamente sotto «lo scalpello dello storico». Così, come le mani di uno scalpellino trasformano un pezzo di pietra in delicato traforo, il tema dell’indebitamento è stato oggetto di numerose e raffinate ricerche. Indagini che, è stato osservato, hanno affrontato la tematica talvolta in modo un po’ erudito. Gli storici di tanto in tanto peccano di erudizione, soprattutto quelli che si occupano di tempi molto lontani (come chi scrive). Ma sanno anche che, contraddicendo Nietzsche, l’erudizione può diventare vita. E il debito pubblico è una tematica che più di altre offre numerosi insegnamenti. Ben sappiamo, infatti, come tutti i governi dedichino grande attenzione alla sua gestione, preoccupati di non superare, nel suo rapporto con il PIL, quel punto di rottura che pone a rischio la stabilità finanziaria dei loro stati.
È noto, il debito pubblico è oggetto di polemiche, pertanto gli studi che gli sono stati dedicati risentono delle diverse visioni sulla sua natura. Già nel XVII secolo con la nascita dell’economia politica si cominciò a valutarne l’utilità o nocività. C’era chi difendeva il ricorso all’indebitamento perché garantiva l’aumento della liquidità e chi come Jean-François Melon, allievo di John Law, sosteneva che in fondo «Les dettes d’un État sont des dettes de la main droite à la main gauche». Anche teologi e canonisti riconoscevano la legittimità di prestiti volontari o forzosi richiesti dalle città. A fronte di ciò non mancava chi, come Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, lo considerasse un pericolo, sottolineando il rischio di utilizzare i risparmi per finanziare spese improduttive.
Qualche decennio dopo il tema fu affrontato anche da personaggi come Adam Smith e Karl Marx. Il primo sosteneva che l’enorme crescita del loro debito avrebbe determinato il dissesto di tutte le nazioni europee; basava queste osservazioni confrontando le vicende finanziarie inglesi e francesi prima della rivoluzione. Marx riconosceva al debito il merito di avere favorito le originarie forme di accumulazione: con un colpo di bacchetta quasi magica permetteva al denaro, di per sé improduttivo, di creare valore e trasformarlo in capitale. Comunque era d’accordo sul fatto che livelli eccessivi potessero portare a pesanti crisi economiche.
Anche di là dall’Atlantico si rifletteva sull’argomento con considerazioni e immagini molto utilizzate oggi. Thomas Jefferson, dalle dolci colline della sua Virginia, sosteneva con forza che l’esposizione debitoria di una nazione non dovesse oltrepassare la durata di una generazione. Più tardi John Maynard Keynes riteneva che nel breve periodo e in una situazione di sottoccupazione il debito potesse stimolare la domanda aggregata. A Losanna la scuola di Marie Esprit Léon Walras lo reputava, nel lungo periodo e in circostanze di pieno impiego, fonte di «spiazzamento» degli investimenti privati.
Questi pensieri escludono comunque l’idea che il debito possa essere neutrale, ossia privo di effetti reali sull’economia. Tali posizioni sono state messe in discussione da uno studio di Robert Barro il quale, riprendendo la teoria della Equivalenza ricardiana, ha sostenuto che per lo stato è irrilevante scegliere se finanziare la spesa pubblica con prestiti o con imposte. Si apriva così un nuovo dibattito tra i fautori delle interpretazioni tradizionali e quelli della neutralità del debito. Un dibattito all’interno del quale le diversità tra le due letture non sono sempre così nette.
Nella contemporaneità la riflessione si è indirizzata soprattutto sul controverso legame tra debito e crescita economica. Si tratta di una ricca storiografia della quale ci limitiamo a citare il ben noto articolo di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff; essi affermano l’esistenza di una precisa soglia oltre la quale il debito rallenta la crescita del paese (Debito/PIL oltre il 90%). Ai due studiosi di Harvard hanno risposto Ugo Panizza e Andrea Presbitero i quali asseriscono invece che esso non incide sulla crescita economica e la correlazione sarebbe non causale.
Insomma, un quadro nel quale si inserisce l’eterno dilemma: per l’economia il debito (e il suo livello) è benefico, dannoso o neutrale? Come è stato autorevolmente sostenuto esso può essere buono o cattivo, molto dipende da come lo si usa. Aguzza montagna pronta a crollare con inenarrabili danni alle popolazioni. Così oggi in molti immaginano il debito pubblico o meglio la sua eccessiva dimensione. L’impossibilità o incapacità di stabilizzarlo o ridurlo ne provoca una ulteriore crescita. Una crescita che, nel passato come nel presente, poteva obbligare a nuove emissioni solo per poter rimborsare gli interessi maturati. Per questi motivi, oggi ancor più che nei tempi andati, si tende a demonizzarlo confondendo le sue dimensioni con il fatto in sé e senza tener conto di altri aspetti che lo connotano.
La riflessione che propongo ha inizio con l’esame dei debiti dello stato tra Medioevo ed Età Moderna. Periodo storico dal quale emerge che esso ha svolto, seppure con intensità diverse, una funzione spesso propulsiva in moltissimi settori della vita. Dal punto di vista economico ha consentito uno sviluppo capace di migliorare le condizioni materiali e di sicurezza della popolazione: si pensi alla dotazione di nuove infrastrutture o all’aumento delle capacità belliche degli stati. Dal punto di vista finanziario la necessità di trovare denaro ha affinato le tecniche di raccolta e restituzione di fondi: si pensi alle prime tipologie di certificati utilizzati, ai programmi di cancellazione fondati su articolati piani di ammortamento o alla gestione dei portafogli titoli di cui già si occupavano i mercanti-banchieri italiani del Rinascimento.
Dal punto di vista politico e istituzionale ha agevolato il passaggio verso la nascita dello stato moderno: per ottenere prestiti era indispensabile la fiducia della popolazione, ciò rafforzò la consapevolezza che la finanza non poteva sfuggire a connotati di trasparenza e soprattutto che i debiti creati dalle corone, diversamente dal passato, non si estinguevano con la morte dei sovrani. Nel luglio 1459 a Firenze fu emessa una provvisione in cui si evidenziava che la «riputazione» del «monte in pregio alto» garantiva vendite vantaggiose dei titoli e dunque la raccolta di somme da investire in attività produttive e commerciali che avrebbero consentito ai cittadini di non essere «otiosi et scioperati».
Se così si sosteneva nella Toscana del XV secolo, alla fine del Settecento Alexander Hamilton, economista americano che, senza raggiungere la carica di presidente degli Stati Uniti, ebbe l’onore di essere ritratto su una banconota, diceva che un debito nazionale, se non eccessivo, sarebbe stato una benedizione. D’altro canto non si devono dimenticare i pericoli in cui incorrevano governi e finanziatori per una esposizione alta. I primi costretti sin dal Trecento a interrompere i pagamenti, a rinegoziare e ristrutturare il debito, i secondi a constatare amaramente che il sostegno dei regni rischiava di procurare gravi danni. Si pensi alle grandi compagnie bancarie dei Bardi e dei Peruzzi che tra il 1343 e il 1346 fallirono dopo aver prestato ai re d’Inghilterra ingenti somme di denaro.
Si pensi alle perdite dovute alla sospensione dei rimborsi che nel Cinquecento subirono i Fugger nella Spagna di Carlo V e le compagnie italiane, tedesche ed europee nella Lione di Enrico II.Con questo non dobbiamo pensare che gli operatori non fossero consapevoli dell’alea a cui si esponevano. I Bardi, i Peruzzi e i loro contemporanei l’avevano attenuata ottenendo esenzioni fiscali o guidaggi (autorizzazioni a commerciare). Due secoli dopo, dubbi ed euforia si alternavano frequenti nei carteggi tra mercanti e banchieri. Da quelle carte apprendiamo che la consapevolezza del rischio era compensata dai vantaggi dovuti al ruolo conquistato tra i ceti dirigenti del tempo e dai conseguenti benefici economici e finanziari.
Passarono poco più di cento anni e cominciò il Secolo dei Lumi. Mentre François Quesnay sosteneva che lo stato doveva finanziare le sue necessità straordinarie attraverso «la prosperità della nazione e non mai nel credito dei finanzieri», molti governi si indebitavano per sovvenzionare nuovi conflitti pur tentando di ridurre la loro esposizione. Così furono pensati meccanismi di ammortamento o di aumento e razionalizzazione della imposizione fiscale. Milano visse la stagione asburgica con il nuovo catasto teresiano, l’Inghilterra creò una commissione per ridurre il suo disavanzo. Su tutti comunque pesavano i debiti che si erano formati durante i lunghi secoli dell’Ancien Régime.
Nell’Ottocento, a parte le vicende europee, il nostro paese ancora frammentato in numerosi regni continuava, almeno in parte, lungo i percorsi del passato e all’indomani dell’Unità si ritrovò con un debito pubblico frutto della somma di quelli dei singoli stati da cui era originato. Come vedremo, nel tempo, esso crebbe non solo per finanziare i conflitti di fine secolo e di quello successivo, ma anche per dotare il paese di una serie di infrastrutture indispensabili per la sua modernizzazione. Una esposizione che ha continuato a crescere raggiungendo livelli preoccupanti per la stabilità finanziaria, ma che l’Italia è sempre riuscita a sostenere. Quasi incredibile se si pensa che tra il 1870 e il 2014 ben 127 volte il rapporto tra Debito/PIL è stato superiore a quello degli altri stati del G7.
Negli ultimi due anni la pandemia ha creato una nuova quotidianità. I pesanti effetti del Covid-19 sull’economia hanno portato all’emissione di debito europeo, 750 miliardi di euro per finanziare il SURE (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency) e il Next Generation-EU per accedere al quale il nostro paese ha presentato il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. All’Italia arriveranno oltre 190 miliardi sotto forma di sovvenzioni e crediti agevolati a basso tasso di interesse. Ancora prestiti che dovremo ben utilizzare.
La ricchezza del debito pubblico, Angela Orlandi, Il mulino, 208 pagine, 17 euro