Non è (ancora) finita. Quando parliamo di cambiamento climatico, adottiamo troppo spesso un «linguaggio apocalittico, c’è un senso di sconfitta, sentiamo dire che è troppo tardi». Beh, non è troppo tardi. «È stupido pensarlo. C’è uno spettro che va da “nessun impatto” alla catastrofe: dove finiamo in quello spettro dipende da noi». Simon Mundy è un inviato del Financial Times, ha girato ventisei Paesi e sei continenti per documentare quanto siano già gravi gli effetti della crisi climatica. Il suo libro, “Sfida al futuro” (uscito da poco con HarperCollins), ha anche e soprattutto una carica di speranza, per non partire già battuti nella sfida epocale per la nostra specie.
La lezione di Mundy è che «bisogna umanizzare i dati». Infatti, «al di là delle statistiche, è in corso una delle lotte più avvincenti della storia, con un immenso cast composto da personaggi che vivono nelle condizioni più disparate e provengono da ogni angolo del globo». A Linkiesta il reporter spiega che voleva coprire «la più grande notizia del secolo» in modo diverso. «Ci sono numerosi buoni libri sul cambiamento climatico, ma molta gente non ne ha ancora letto uno perché teme sia una predica, pesante o astratto. Io volevo scriverne uno che si potesse leggere in spiaggia».
È così. La scansione delle sezioni ricalca un planisfero: disgelo, maree crescenti, l’età delle tempeste, terra arida, carne, combustibili, energia. Non tutti siamo così fortunati da poter girare il mondo per due anni, è questo il valore aggiunto di una testimonianza dal campo così vasta. «Non ho parlato solo con i good guys – racconta il giornalista –, ma anche con chi in Brasile abbatte gli alberi dell’Amazzonia perché di fronte agli incentivi economici ha solo due scelte: restare povero o bruciare la foresta. Non possiamo fare finta che non esistano».
L’ha segnato la Mongolia, per la bellezza dei paesaggi senza fine, dove ha dormito in tenda e mangiato carne arrostita davanti al fuoco. Qui ha appreso come gli zud, il termine che indica un inverno particolarmente freddo, siano sempre più frequenti. Pensiamo spesso all’estremo caldo, con gli incendi e le ondate di calore, ma c’è anche l’altro opposto, quello del gelo. Uccide gli animali, fonte di sostentamento delle famiglie e di tradizioni millenarie che rischiano di scomparire. «Abbiamo i modelli scientifici, ma non sappiamo dove e quando colpirà la crisi, anche perché non abbiamo mai fatto un esperimento con tutto il nostro pianeta».
Mundy è passato dall’Italia, a Venezia. La Serenissima ci sta a cuore per il suo patrimonio artistico, con anni di paginate sui quotidiani e dirette televisive. L’abbiamo chiamata «acqua alta» come se riguardasse solo noi, ma è parte dello stesso fenomeno che investe remote isolette nell’oceano Pacifico, meno battute dai flussi turistici. «Chi vive a Londra, Milano o New York accusa una forte distanza dalle Isola Salomone, da Dakar o Kinshasa, ma l’impatto del cambiamento climatico sarà sempre più severo sulle nazioni povere. Se nel mondo ricco restiamo concentrati su di noi, ci accechiamo di fronte alla realtà».
Fare la contabilità delle emissioni può essere insidioso. «È una logica economica imbarazzante – chiarisce il giornalista –. Le emissioni pro capite dell’Italia, del Regno Unito o degli Stati Uniti hanno ordini di grandezza superiori di quelle dell’Africa, o dell’India, che consideriamo spesso inquinata. Anche la Cina ne ha un sacco, ma è la fabbrica del mondo: le emissioni sono solo state spostate là, siamo responsabili pure noi. Per questo, e per le promesse non mantenute, gli abitanti dei Paesi più poveri stanno perdendo la pazienza».
La Cop27 tanto contestata ha senso proprio in questa prospettiva: forzare il dialogo tra chi abitualmente non comunica. L’ex presidente delle Maldive, intervistato nel libro, l’ha criticata perché c’è chi ci lucra, ma lo scorso anno è volato a Glasgow nonostante fosse reduce da un attentato. «I ricchi passano un sacco di tempo a parlare tra di loro in un ambiente protetto – spiega Mundy –, la Cop è un processo che li costringe a stare nella stessa stanza dei rappresentanti della maggioranza dell’umanità e a confrontarsi. Il problema del cambiamento climatico non verrà risolto a Sharm el-Sheikh, anche il termine “risolvere” non aiuta: non è una situazione binaria, dipende da noi, tutto quello che facciamo fa la differenza».
Il primo passo per sopravvivere a un problema è ammettere di averne uno, ma il «tono» può fare la differenza. Un cambio di paradigma servirebbe pure sul frasario da apocalisse: «Capisco l’ansia dei giovani quando dicono che le vecchie generazioni li hanno fregati, ma è importante che non si arrendano. Abbiamo bisogno di loro e del loro talento per il futuro. Devono avere ancora speranza, continuare a spingerci a fare meglio, perché non è troppo tardi: dipende da noi quanto saranno gravi gli effetti già cominciati».
Gli attivisti per il clima, di recente, hanno fatto notizia per le azioni dimostrative nei musei, con le zuppe scagliate contro le opere d’arte. «Avrei condannato il gesto se avessero danneggiato il dipinto – riflette l’autore –, ma non è così e non è neppure uno spreco di cibo statisticamente significativo, visto che viene buttato un terzo di quello prodotto nel mondo. Sono d’accordo che dovremmo parlare di più del cambiamento climatico, e quelle proteste contribuiscono a farlo, ma non guidano i processi politici. C’è chi cerca di spacciare l’azione climatica come una cosa da estremisti, ma riguarda tutti noi e questi gesti eclatanti a volte rischiano di compromettere il sostegno popolare».
Sulla necessità di aggiornare il vocabolario, Mundy cita i due aspetti della transizione energetica: ridurre i combustibili fossili e investire di più nelle rinnovabili. «Oggi c’è più enfasi sul lato negativo, ma non abbastanza sul mettere in dubbio questa narrativa dell’inverno alle porte. Sarebbe un messaggio ispirante dire che per essere un’economia competitiva a livello internazionale bisogna puntare di più sulle rinnovabili. I Paesi che investiranno in queste tecnologie e nell’energia pulita saranno i leader dell’economia mondiale sul lungo termine». In una riga: «Anche se non ti interessa il cambiamento climatico, ma solo i profitti, l’energia green è la più grande opportunità economica del momento».
Durante la guerra in Ucraina, come nel dramma della pandemia, la gente non ha perso di vista l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Lo shock del coronavirus avrà un lascito: «Ci siamo resi conto che il nostro mondo è fragile, non dobbiamo dare nulla per scontato, che sia la nostra salute o quella dell’intero pianeta. Abbiamo anche capito che vale la pena ascoltare gli scienziati. Durante i lockdown, la gente ha sostenuto una legge che gli impediva di uscire di casa perché riteneva servisse e ciò disintegra ogni obiezione da homo oeconomicus: le persone sono pronte a fare sacrifici immensi se pensano che sia eticamente necessario».
Simon Mundy, Sfida al Futuro, HarperCollins, 464 pagine, 23 euro