«Perché a San Lorenzo? Cos’ha questo quartiere? Non sarebbe stato più adatto, chessò, Monti, con tutte quelle bottegucce e l’aria bohémienne, frequentato da artisti o aspiranti tali, il nostro Marais romano?». A fare la domanda – che denota non di meno una certa ignoranza tutta milanese sull’humus che popola i diversi Cap della capitale – è chi scrive, seduta al bar della Soho House, con vista privilegiata proprio su San Lorenzo, che poi è il quartier generale scelto dal member’s club nato a Londra nel 1995, e poi espansosi nelle maggiori capitali mondiali.
A rispondermi con un certo grado di pazienza è Giorgia Tozzi, manager della struttura, che ha festeggiato il suo primo compleanno da poco (ovvero la prima apertura in Italia, a cui seguirà prossimamente Milano). Il suo passato è diviso tra istituzioni romane come il De Russie, di cui curò l’apertura nel 2000, e piccoli boutique hotel. «C’è stata in primo luogo una questione di spazio», spiega Tozzi, citando le misure importanti dell’edificio (un palazzo di dieci piani che al suo interno dispone di quarantanove stanze e venti appartamenti adatti ai soggiorni lunghi, metrature difficili da ritrovare in un quartiere come Monti).
«La realtà però è che quando il fondatore, Nick Jones, è venuto qui durante le fasi di ricerca e valutazione del quartiere più adatto, ha capito subito che era il posto giusto. Lo definì “pop”, gli ricordava il Meatpacking District newyorchese degli inizi, quindici o venti anni fa, quelle caratteristiche di marginalità rispetto al centro, ma dotato di una vita propria, un quartiere che definiremmo popolare, autentico, di quelli con i panni stesi alle finestre.
Un quartiere con il quale collaboriamo, partendo dal giornale locale Zi’ Lorenzo, ai veri e propri comitati del posto dei quali facciamo parte, occupandoci ad esempio della pulizia delle strade». Certo, si riflette, se la notizia di Monti place to be è arrivata sino a Milano, è probabile che nel frattempo, l’hotspot romano sia stato colpito dall’annoso fenomeno della gentrificazione, ossia il graduale imborghesimento con relativa salita verticale dei prezzi degli immobili, oggetto di desiderio di grafici hipster, politici in erba e imprenditori digitali.
Un percorso che in passato ha già compiuto l’area di Trastevere e che effettivamente potrebbe convincerci della visione di Jones: d’altronde il Meatpacking District degli inizi, prima degli Apple Store e del Whitney Museum of Modern Art firmato da Renzo Piano, era un’area nei pressi di una vecchia stazione (oggi ci hanno costruito un parco sopraelevato) con edifici in declino usati per la lavorazione della carne.
San Lorenzo ha accanto Termini, non di certo una stazione dismessa, e laddove a New York era celebre la carne qui c’è un ben noto pastificio, che in realtà un pastificio non è più da almeno sessant’anni: la Fondazione Pastificio Cerere è un simbolo incontrovertibile della flessibilità del quartiere San Lorenzo, sin da quando le proprietarie dell’immobile, che aveva prodotto grani e farina fino al 1950, decisero di trasformarlo in residenze d’artista.
Felicina e Adriana Ceci furono quindi le catalizzatrici di un cambiamento epocale insieme agli artisti che quel luogo lo abitarono, occupandosi delle migliorie e delle ristrutturazioni fino al 2005, quando il luogo si è aperto al pubblico divenendo sede di mostre ed esposizioni dedicate principalmente all’arte contemporanea – le case d’artista sono rimaste, insieme ad atelier di grafica, studi di comunicazione, e l’accademia di Arti Visive RUFA.
È proprio la vocazione artistica del quartiere – che da allora si è popolato di gallerie e spazi espositivi, satelliti intorno alla Fondazione – ad avere convinto il fondatore a portare qui la Soho House, riflettendo quella passione per l’arte nella scelta dei quadri e delle sculture che arredano l’immobile, concentrandosi su nomi che vivono e operano in Lazio, sia con opere site-specific – incentrate sul tema Santi e Peccatori – che con lavori originali firmati da Gianni Politi, Silvia Giambrone, Claudio Verna, Elisa Montessori, Emiliano Maggi, Gabriele de Santis, Micol Assael, Ra di Martino, Marta Mancini, Manfredi Gioacchini, Andrea Martinucci e Thomas Braida.
Non manca però la dimensione internazionale: se in ogni stanza d’albergo è presente un’opera d’arte creata ad hoc dagli artisti emergenti Josip Grgic, Azadeh Ardalan e Nicolò Bruno, l’area al piano terra è incentrata su un percorso espositivo che annovera creazioni ispirate al recente periodo di quarantena. A firmarle sono Thomas Heatherwick, Xaviera Simmons, Dread Scott, Sol Calero, Zoe Buckman, Ilit Azoulay e Chi Wo Leung. Proprio l’area a piano terra, con il San Lorenzo Caffè aperto anche a chi non è membro dell’istituzione, è una sorta di test area per chi non è ancora affiliato. «Soho House è stata la prima a portare in Italia l’idea di un members club, un posto per accedere al quale, a Roma e in tutte le sue altre sedi nel mondo, serve pagare una quota di iscrizione annuale» spiega Tozzi.
Ci sono agevolazioni per gli under 27 e da ottobre 2021 anche una nuova formula, Soo Friends, con un prezzo minore che consente di utilizzare alcune aree della SoHo House, come appunto quella del caffè San Lorenzo, o soggiornare nelle altre Soho House del mondo con tariffe agevolate. Aiuta a comprendere cosa potenzialmente questa struttura può offrire in termini di contatti e connessioni, anche perché il progetto nasce originariamente dal desiderio di fare rete tra personalità che operano nel mondo dell’arte, della comunicazione, dell’intrattenimento.
A conferma delle affermazioni di Tozzi, mentre prendiamo il nostro caffè si avvicina al tavolo una conoscenza di chi scrive, organizzatore di una serie di incontri culturali incentrati sulla moda che avranno luogo nel futuro prossimo proprio all’interno della struttura: si era discusso di una collaborazione via Instagram, poi non se n’era fatto molto ma si era rimasti in contatto. Ci si conosce dal vivo, si chiacchiera per qualche minuto della casualità di trovarsi lì, ci si saluta: forse non è in fondo una casualità, perché Soho House è un hub il cui obiettivo primario è creare connessioni, promuovendo anche il lavoro o i progetti dei propri iscritti, tramite una miriade di modi diversi.
L’ultima aggiunta è la sala per i podcast, area insonorizzata al nono piano, da usare come photoboot, o, appunto, un podcast della durata di quindici minuti, e poi portare la registrazione con sé. Un’amica designer che è lì per l’aperitivo ci confessa però che l’area più affollata della Soho House romana è la sua screening room. «Adesso? Sono tutti ossessionati: bisogna assolutamente venire qui a vedere le proiezioni. Ne parlano tutti».
Non di soli film d’essai vive però la popolazione che abita la Soho House, ma anche di premiere di pellicole presentate a Cannes o Venezia o prodotti targati Netflix portati qui in anteprima. Il merito del successo è forse nei divanetti in velluto, come nei cinema di una volta, e sicuramente nella possibilità di portare in sala il cocktail preso dal bar accanto.
Parte della responsabilità però, nonostante lui non lo ammetta, è di Tozzi, che nel suo curriculum vanta una lunga permanenza in Paramount. «Avevo dei contatti», si limita a concedere con umiltà. La programmazione include anche un’angolatura child friendly con proiezioni alle ore quattordici di domenica, dopo il brunch, e ci si immagina già le galleriste romane dislocate a San Lorenzo, che dopo aver accompagnato la prole in sala tornano al bar ordinando Bellini.
La frequentazione però è diversificata, con serate dedicate come ad esempio quella per gli under 25, dove si capita per sbaglio sentendosi tremendamente anziani, ma in fondo anche preparati. I giovani appassionati di moda al tavolo accanto si interrogano, senza darsi risposte, sull’affaire Balenciaga, confusi dalle quantità di teorie cospirazioniste accalcatesi intorno ad un paio di foto.
Si resiste alla tentazione di spiegare loro tutto per bene, d’altronde si è studiata parecchio la questione, ma si evita di farsi bollare inopinatamente come boomer (al massimo millennial, se si vuole essere precisi). Ad attrarre di più è la terrazza, che ospita il ristorante Cecconi. «Siamo gli unici a non avere il Cecconi a piano strada, ma sul terrazzo», spiega Tozzi. «Portare un format di ristorazione che all’estero è così correlato all’Italia, nonostante prima della nostra apertura sul suolo italiano non ci fosse alcun Cecconi, è stata una sfida», ammette Tozzi. Il primo Cecconi, infatti, fu aperto a Londra negli anni Settanta dall’italiano Enzo Cecconi, ex manager dell’hotel Cipriani a Venezia, e che però ha conosciuto il vero successo solo attraversando la Manica.
Da allora la formula è stata replicata in diverse megalopoli (Los Angeles, New York, Istanbul, Berlino, Dubai, Barcellona, Miami e Amsterdam) senza mai mettere piede a casa. «Da quando abbiamo aperto fino ad oggi, però, i members hanno iniziato a venire anche di giorno, a sfruttare la struttura come luogo dove fare smartworking indisturbati o pranzi di lavoro, oppure per approfittare della palestra e dei trattamenti del centro estetico». Dalla terrazza, ora coperta, si riesce a vedere tutta quest’area di Roma sulla quale Nick Jones ha scommesso, dal Pastificio Cerere al Cimitero del Verano, ad alcuni dipartimenti della Sapienza e poi giù, Porta Tiburtina, le botteghe degli artigiani e le associazioni culturali e studentesche, i club e le birrerie. Chissà, forse ci voleva l’occhio di un inglese, per capire quale sarebbe stato il nostro Meatpacking District.