The Menu è “il” film, per tutti coloro che si occupano di questo lavoro. Perché ci siamo tutti, lì dentro, ognuno di noi ha il suo topos ben rappresentato nella trama. Ma è anche una storia che nessun cliente di ristorante può perdersi, perché racconta tante delle nostre fissazioni, idiosincrasie, ma soprattutto delle esperienze vissute alle tavole dei nostri locali preferiti. C’è dentro talmente tanto, e provoca in noi tali e tante reazioni che sistematizzare la riflessione è attività davvero complessa.
Proveremo a farlo senza spoiler, perché gran parte della riuscita del film è proprio la sorpresa che provoca la trama che si sviluppa.
Entri pensando di andare a vedere un film che scimmiotta i grandi chef dei ristoranti fine dining ed esci pensando a Freud, a Proust, a Edipo e a Hitler.
Il cibo è un mezzo di espressione, ma anche uno strumento di potere. L’alta cucina ne viene fuori a pezzi, nel senso letterale del termine, ma anche in senso metaforico. E quando qualcuno scrive “il fine dining dopo questo film è morto” forse non ha tutti i torti.
Perché tutti noi frequentatori di ristoranti abbiamo provato quelle esperienze a tavola, più o meno forti e più o meno coinvolgenti: ma c’eravamo, nel ristorante sull’isola di The Menu. L’abbiamo persino desiderato. Ma questa rappresentazione che porta all’eccesso tutte le storture del mondo che viviamo è in effetti un risultato possibile di questa evoluzione. E non ci piace affatto.
Tutti noi abbiamo conosciuto lo chef divinità, o sappiamo almeno per sentito dire che le cucine, alcune cucine, sono campi militari dove l’ammutinamento non è permesso, ed esiste solo una legge, quella del “Sì, chef!”. Perché per un uomo al comando, ce ne sono dieci disposti a obbedire ciecamente. Uomo solo che è al comando per un’infanzia difficile, per un rapporto con la madre complicato, per un complesso di Edipo da risolvere e che si evidenzia in una follia creativa gastronomica.
Ne “La grande abbuffata”, l’altro film che come questo ha segnato un nuovo corso, c’è tutto il Novecento: l’eccesso bulimico del cibo e del sesso, la decomposizione borghese fino al suicidio per eccessi.
Qui c’è, lo stesso, ma al contrario, per sottrazione del cibo, perfetto esempio di questo periodo storico e gastronomico. C’è il bisogno di purificare, di togliere, di tornare al meno dopo un ciclo di crescita ossessiva.
E poi c’è la psicologia della rabbia folle dello chef artista, talento di fatto compreso e osannato, ma che nel profondo sente di non esserlo affatto: un sentimento comune sentirsi inadeguati; una condizione che possono provare anche i migliori e che forse così ci pare meno umiliante da sopportare.
Nella trama c’è posto anche per la ricerca della libertà, che però forse in fondo non vogliamo così tanto. Perché stare in una situazione di s-comfort è comunque rassicurante rispetto all’ignoto.
C’entrano la gelosia tra donne, al lavoro, e l’attaccamento alla giacca degli uomini. Il tradimento coniugale accettato. I ricchi che rubano. Il mecenatismo che vuole decidere dell’opera dell’artista. L’uomo che “mangia” la natura, in realtà prima cambiandola e tradendola. C’entra lo scontro tra l’uomo e l’ambiente.
C’entra, infine, la madeleine proustiana, che con il cibo del resto c’entra sempre, maledizione a quando Proust ha bevuto il tè dalla zia. Solo quella, solo il cibo ancestrale che ci riporta a un momento felice indissolubilmente legato a un pensiero bello, allora ci può essere salvezza. Nel film è un cheeseburger, e questa è un’altra riflessione. Ci può essere una ricetta salvifica nella cucina creativa? Ci possiamo riscattare grazie a un piatto elaborato e incomprensibile? La risposta, nel film, è decisamente no. E forse il messaggio finale è davvero tutto qui. Tornare alle origini, tornare alla confortante semplicità di un piatto che ci riporta a momenti felici è l’unica alternativa possibile. E forse è per questo che la citazione proustiana rimane quella più azzeccata, quando parliamo di cibo e memoria, di salvezza e pace.