Tra globalismo e sanzionismoLa guerra interna in Cina tra politica e tecnologia

Come spiega Alessandro Aresu in "Il dominio del XXI secolo" (Feltrinelli), il regime cinese ha bisogno del dinamismo degli imprenditori, ma le enormi ricchezze che si accumulano con la digitalizzazione devono rimanere saldamente nelle mani del Partito comunista

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Il Partito comunista ha il terrore di essere asserragliato da oligarchi. Osserva con attenzione e con circospezione la crescita dell’ecosistema digitale cinese secondo quest’ottica. La situazione “anarchica” del fintech cinese ha alimentato straordinarie innovazioni, assieme alla disponibilità di dati resa possibile dalla grande popolazione cinese e dal suo comportamento. Ma in questo ecosistema esiste sempre una linea rossa: le enormi ricchezze che si accumulano con la digitalizzazione della Cina non possono valicare il confine del potere, che deve rimanere saldamente nelle mani del Partito stesso.

Chi compie un gesto di trasgressione o eresia rispetto a questi equilibri viene punito. La punizione può avvenire in termini tradizionali, perché il Partito comunista cinese ha il monopolio reale della forza, nel senso della capacità – in potenza e nell’atto – di sequestrare o far sparire gli imprenditori. Un altro modo di punire chi sgarra è l’uso politico della regolamentazione, per proteggere l’esistente e bloccare l’innovazione. Jack Ma subisce entrambe: i regolatori bloccano il suo trionfo e il suo ruolo pubblico viene cambiato per sempre.

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Dopo una sorta di “età dell’oro cinese”dello sviluppo tecnologico attraverso forte innovazione con ridotta regolazione e competizione sfrenata tra giovani imprenditori e tra diversi ecosistemi locali, si assiste a un ritorno della politica anche nella superficie, con azioni privilegiate da parte dei veicoli statali e l’uso diffuso della regolazione che abbiamo richiamato. Xi Jinping rende esplicito il progetto della prosperità condivisa, che rappresenta un rovesciamento della formula di Deng Xiaoping “arricchirsi è glorioso”: l’arricchimento è essenziale per alimentare il contratto sociale che tiene insieme la Cina, basato sulla crescita continua, ma la ricchezza non può minare la stabilità, ovvero i legami sociali così come sono intesi dal Partito e il legame tra il Partito e la società. La redistribuzione dei giganti tecnologici è essenziale tanto per riportare risorse nella società, attraverso la beneficenza alla quale si dedica da tempo uno dei più devoti oligarchi digitali cinesi, il fondatore di Tencent Pony Ma,23 quanto per mostrare che i capitani d’impresa, alla fine, fanno quello che dice il Partito.

Non esiste una “neutralità” dei processi tecnologici: vanno giudicati per le loro implicazioni sociali e antropologiche. Non possono essere esenti da giudizio o presumere un’autodichia che deriva dal successo. Il Partito può sempre imporre la “livella”, anche se c’è un prezzo di sviluppo da pagare. Non potrà esistere un’innovazione in grado di scardinare il “sistema” né un imprenditore tecnologico che fornisce l’interpretazione autentica del pensiero di Xi.

Diffondere ed elaborare il pensiero del segretario generale è compito di chi si trova veramente al vertice della struttura, come l’eminenza grigia Wang Huning, il professore-consigliere sopravvissuto a tutti gli ultimi leader, da Jiang Zemin che lo vuole accanto a sé per primo, passando per Hu Jintao, per giungere a Xi Jinping che lo eleva nel cuore decisionale del Politburo. Gli imprenditori tecnologici si arricchiscono, vanno all’estero, veicolano una certa immagine della Cina e stimolano i giovani in patria. Immaginano e costruiscono il futuro. Ma con l’argomento del futuro è sempre possibile divorare il presente.

La vera saldatura tra passato, presente e futuro è l’appuntamento del centenario della Repubblica popolare cinese, che si rialza dal secolo di umiliazione nel 1949 e attende la celebrazione della nuova era socialista nel 2049. Questo è il respiro del tempo, erede della civiltà millenaria cinese e alle prese con questioni esistenziali, come Xinjiang e soprattutto Taiwan. I progetti degli imprenditori di creare aziende che vivono centodue anni sono poca cosa davanti al respiro della civiltà.

Eppure, la forza del Partito che ha umiliato Jack Ma cela una debolezza. Il Partito sa che, nel suo contratto sociale, soprattutto col rallentamento della crescita, ha bisogno del dinamismo degli imprenditori. L’organizzazione più potente del pianeta (e forse della storia dell’umanità) non crede affatto di portare da sola il fardello dell’innovazione, con uno stato imprenditore panottico e onnipotente, che vede ogni sviluppo e sa gestirlo al meglio. Sa di essere in grado di svolgere questo compito solo in parte.

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Il Partito naviga nel dilemma tra economia e società, politica e tecnologia cercando di diversificare i vari campioni, sperando che, nell’enorme mercato interno in crescita, emerga qualcun altro. Ma ha bisogno del resto del mondo, come avviene per la manifattura, e non può tollerare un isolamento totale. Allo stesso tempo, ha bisogno del controllo politico. Ma il Partito sa che la forza dello sviluppo cinese non è l’autocrazia di per sé, né il controllo di per sé. È la capacità di sorprendere i critici, che per decenni – dopo i fatti di Tienanmen – hanno profetizzato inutilmente il crollo del sistema cinese. È saper sfruttare la vivacità della propria società, l’immaginazione del futuro (evidente nel fermento della letteratura di fantascienza) che diviene pratica del cambiamento di lungo termine e flessibilità nell’affrontare le sfide, tenendo ferme allo stesso tempo la stabilità e la legittimazione del Partito. Si tratta di un equilibrio fragile, di un ricettacolo di contraddizioni. Ed è un equilibrio messo in crisi da un mondo che il Partito comunista riesce a comprendere e gestire solo in parte: una scatola di cioccolatini in cui il gusto del globalismo convive con quello del sanzionismo.

Da “Il dominio del XXI secolo – Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologica” di Alessandro Aresu (Feltrinelli), 256 pagine, 19 euro

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