Uno dei ristoranti considerati migliori al mondo ha annunciato una sua futura chiusura, per “insostenibilità”. Nei conti e nell’impegno fisico ed emotivo che richiede. Il suo fondatore, René Redzepi, ha comunicato la cosa in positivo, raccontando come il progetto del ristorante evolverà in un centro di ricerca e sperimentazione, che diventerà un pop up restaurant in alcuni momenti particolari dell’anno.
Abbiamo riflettuto a caldo sulla questione, sottolineando la nostra visione: che il fine dining non sia un’impresa sostenibile sul lungo periodo noi ve l’abbiamo detto mesi fa. Ma questa chiusura improvvisa, dettata più dalle perdite che dall’etica, dimostra una volta in più la nostra tesi. C’è anche un altro aspetto della vicenda sul quale ci siamo interrogati. I Paesi del Nord Europa, negli ultimi dieci anni, hanno vinto innumerevoli concorsi internazionali, e sono stati al vertice delle classifiche più prestigiose e seguite. E l’impegno degli Stati per la promozione dei ristoranti più di avanguardia e di ricerca è stato palpabile: tante pubbliche relazioni internazionali, finanziamenti alla gastronomia e sostanzioso apporto alla comunicazione mondiale delle loro eccellenze. L’obiettivo di sviluppo turistico in chiave gastronomica era chiaro: portare in quei luoghi, fino a poco prima impensabili come mete del gusto, i foodies di tutto il globo, alla ricerca di una nuova frontiera dopo la cucina molecolare spagnola che stava man mano volgendo al tramonto.
Guarda caso, anche Ferran Adrià, all’apice della carriera, chiuse il suo El Bulli e lo fece diventare un centro di formazione e di ricerca. Oggi che le mete del Nord Europa si sono assestate, questa campagna di sviluppo è probabilmente agli sgoccioli, e anche il Noma non ha più il carburante necessario per mantenere in vita un universo completamente sovradimensionato rispetto alle effettive esigenze di un ristorante, e ai suoi costi.
Forse la lettura più pragmatica della notizia è venuta da Nick Kokonas, proprietario del leggendario Alinea, che su Twitter ha fatto un’analisi lucidissima e coraggiosa: «Nel 98% dei casi, quando un ristorante chiude è perché o non fa soldi o perché i soldi vanno alle “persone sbagliate” (investitori, finanziamento del debito, ecc.). Probabilmente scoprirai che la struttura del business non è in linea con gli obiettivi dello chef come “artista” o innovatore. Non ho una conoscenza particolare del Noma come azienda… ma so che quando le aziende si ristrutturano è quasi sempre dovuto esclusivamente a motivi finanziari. Se un locale serve 60 persone a sera è davvero facile stimare i ricavi annuali e quindi il potenziale profitto totale. È anche vero che in Europa la ‘tradizione’ dello stagista non pagato è durata molto più a lungo che negli Stati Uniti. Ma se un’azienda si riorganizza come struttura educativa (almeno in parte, come hanno fatto altri) qual è allora il costo del lavoro? Puoi davvero *far pagare* agli studenti il lavoro? Certamente è quello che è stato fatto in altri casi, anche se non l’ho mai visto spiegato in questi termini. Amo Noma e penso che René sia un genio. Ma prendere questo episodio, in generale, come una visione del settore nel suo insieme è un errore».
Perché Noma è un simbolo, sicuramente, ma in effetti non può essere ricondotto al totale della ristorazione d’eccellenza. Anche se certi meccanismi, certe storture, certe dinamiche sono sicuramente identificative di un fenomeno che sta mostrando la corda e che determinerà il futuro di queste insegne e quindi, di conseguenza, di tutto il settore. Perché, se è vero che non possiamo considerare le sorti del Noma un esempio universale, di sicuro quello che succede a uno dei ristoranti più celebrati e ammirati al mondo è come minimo un campanello d’allarme per tutto il fine dining. Soprattutto per quello meno blasonato e meno di ricerca, che ha seguito le mode e oggi ne subirà le conseguenze.