Sergio Mattarella, nel suo ruolo di Capo dello Stato e di presidente del Consiglio superiore della magistratura, ha presenziato al cambio della guardia dell’organo di autogoverno dei giudici, ribadendo con forza e nettezza un principio sancito dalla Costituzione e riconosciuto da tutti gli ordinamenti liberali nell’ambito della divisione dei poteri di uno Stato di diritto. «L’indipendenza della magistratura – ha affermato il Capo dello Stato – è un pilastro della democrazia».
In un Paese normale sarebbe sembrata una frase di rito, tanto scontata da passare inosservata. Da noi le parole di Mattarella sono finite nel contesto del dibattito politico in corso e utilizzate (non osiamo dire strumentalizzate) da quanti vedono nelle intenzioni del governo e nelle dichiarazioni del ministro Carlo Nordio sulle intercettazioni (e dintorni) un attacco all’indipendenza della magistratura.
Del resto, i «professionisti del bene» (copyright Alessandro Barbano) non si fanno scrupoli a portare l’acqua al proprio mulino.
Quando il procuratore di Palermo Maurizio Di Lucia – dopo la cattura di Matteo Messina Denaro – ha voluto sottolineare il ruolo determinante delle intercettazioni telefoniche per individuare e arrestare il boss superlatitante (a domicilio), la sua considerazione è stata presa e usata in chiave polemica contro le dichiarazioni del ministro Nordio in merito all’intenzione del governo di regolare diversamente la relativa disciplina, in modo da evitare gli abusi perpetrati attraverso il circuito mediatico-giudiziario nella diffusione «selezionata e pilotata» delle intercettazioni, diventate – sono parole del ministro – «strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica».
Così, come spesso succede nel nostro Paese, è scoppiata una polemica tra sordi, ognuno dei quali ha continuato a svolgere il proprio discorso senza curarsi di quanto dice l’altro.
Il Circo Barnum degli avversari del governo e in particolare di Nordio hanno accusato il ministro di voler disarmare i «professionisti del bene»nella lotta alla mafia, nonostante il titolare di via Arenula, dopo qualche parola di troppo, abbia riconfermato la necessità dell’uso di quella sofisticata tecnologia nella lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo, insistendo però sugli abusi e sulle malversazioni ai danni di persone che nulla avevano da spartire con le inchieste, ma che erano divenute vittime della gogna mediatico-giudiziaria, manovrata dalle procure al fine di demolire presso l’opinione pubblica l’indagato o la personalità presa di mira.
Ma se l’abuso delle intercettazioni fosse solo un corollario, uno strumento, una manifestazione delle anomalie di alcuni settori della giustizia annidati nelle procure? Ha senso accanirsi sul coltello con cui vengono squartate le vittime, anziché dare la caccia a Jack lo Squartatore?
Mattarella è anche presidente del Consiglio supremo di difesa. Le Forze Armate sono al servizio della Repubblica. Questa è la formula utilizzata dalla legge per esprimere, nella forma più alta e profonda, il legame indissolubile che esiste fra le Forze Armate e l’Italia, le sue Istituzioni, il suo popolo, in base a quanto sancisce l’articolo 52 della Costituzione: «L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica».
Ma se si scoprisse che alcuni comandi dell’Esercito (o magari dei Carabinieri), preoccupati di un certo andamento della politica, dell’economia e delle tensioni sociali, convinti della incapacità della classe politica a governare il Paese, cospirassero per sovvertire le istituzioni (magari senza arrivare a provarci), come reagirebbe il Capo dello Stato? Mutatis mutandis, fino dove può spingersi «l’indipendenza della magistratura»?
In Italia è stato consentito alle procure di smontare e rimontare il sistema politico della Prima Repubblica e di condizionare quello sorto, inatteso, dalle macerie. Quando Nordio invita il Parlamento a non farsi intimorire dalle procure mette il dito nella piaga della Seconda Repubblica, che ha tenuto sotto tiro le forze politiche, una parte delle quali è affetta da una grave sindrome di Stoccolma nei confronti della magistratura inquirente.
In breve come è possibile definire l’esercizio dell’azione penale quando essa si sviluppa all’interno di un teorema precostituito in base al quale le istituzioni dello Stato sono colluse con la criminalità organizzata? Le indagini e la raccolta delle prove, in questa visione, servono solo per confermare le tesi del teorema, che rappresenta la verità storica immanente anche quando non si è in grado dimostrarla nei processi.
Troppe volte abbiamo sentito attribuire condanne sul piano storico, ritenute inequivocabili e sempre meritevoli di ulteriori approfondimenti (si pensi alla trattativa tra Stato e mafia o al ruolo di Berlusconi nelle bombe del 1993) anche quando le Corti smentivano con sentenze passate in giudicato gli impianti accusatori.
Alla fine, come ha scritto Sabino Cassese, le procure «oggi sono diventate il quarto potere dello Stato». E si avvalgono di un armamento molto più incisivo di quello di cui disponevano i marinai dell’Aurora quando presero d’assalto il Palazzo d’Inverno. Le procure possono disporre della libertà delle persone che è più importante della loro stessa vita. E da questa trappola non si esce né con la separazione delle carriere né con la revisione delle intercettazioni (tutte misure utili, comunque).
Questi settori della magistratura inquirente sono consapevoli del potere d’interdizione di una corporazione, rinchiusa nell’usbergo di un’indipendenza che «è un pilastro della democrazia».