«Ho avuto l’impressione di avere davanti un capo di Cosa nostra sconfitto». Il generale Pasquale Angelosanto, comandante del Ros che ha guidato l’arresto di Matteo Messina Denaro, racconta a Repubblica come si è arrivati all’arresto del boss mafioso latitante da 30 anni.
«Quella che non dimenticherò mai è l’ora più lunga, che è trascorsa dal momento in cui siamo entrati in azione nella clinica a quando siamo stati sicuri che si trattava proprio di Messina Denaro», dice. «Io ci ho creduto moltissimo, perché ci siamo mossi sulla base di un dato che era oggettivo. Sapevamo che un soggetto con determinate generalità aveva prenotato una chemioterapia. L’ipotesi quindi aveva un fondamento solido, ma la certezza l’abbiamo raggiunta soltanto quando l’abbiamo bloccato».
A portarli alla clinica La Maddalena di Palermo è stato quello che tutti chiamano il «metodo Dalla Chiesa». Il Ros, Raggruppamento operativo speciale, è nato proprio per sistematizzare gli insegnamenti del Generale ucciso dalla mafia nel 1982 a Palermo: la capacità di agire come invisibili, infiltrandosi dove i criminali si sentono più sicuri, avendo però il vantaggio degli strumenti tecnologici più avanzati. «La sua lezione era fondata su due pilastri: lo studio dei fenomeni e l’attività dinamica di controllo sul territorio, che sono la base del metodo del Ros», dice Angelosanto. «Dalla Chiesa aveva anche sottolineato l’importanza della tecnologia ed è in questo campo che rispetto a 50 anni fa ci sono stati gli sviluppi più importanti. Credo che su questo fronte noi possiamo conquistare un vero vantaggio e arrivare a essere un passo avanti rispetto alla criminalità organizzata».
Perché «un’indagine di questo tipo si sviluppa sempre su livelli diversi. C’è quello tecnico, soprattutto con le intercettazioni. Quello dinamico, con i pedinamenti e i controlli sul territorio. E quello informativo, per valutare qualsiasi spunto possa contribuire a integrare il quadro delle ricerche. In questo caso ci hanno colpito le discussioni che familiari e fiancheggiatori facevano su una specifica patologia oncologica. Ovviamente, temevano le intercettazioni e non ne parlavano riferendosi al latitante ma quelle attenzioni non ci sono sembrate frutto di un interesse scientifico astratto: era chiaro che tante preoccupazioni erano rivolte a una persona che per loro aveva grande importanza». Il generale dice inoltre che erano convinti che Messina Denaro «si muovesse solo in Sicilia, senza allontanarsi dai suoi territori. Per questo abbiamo ristretto le ricerche alla provincia di Trapani e a Palermo, arrivando a focalizzarci su un soggetto di Campobello di Mazara: il cuore del mandamento di Messina Denaro. Quella ci è sembrata l’ipotesi più solida, su cui concentrare la nostra attività».
Ma prima di arrivare alla cattura, per oltre dieci anni è stata fatta terra bruciata sulla rete di protezione attorno al latitante. Le indagini hanno provocato «un logoramento dell’organizzazione militare e di quella economica che permetteva la latitanza, in modo da depotenziarla», dice il Comandante. «Soltanto noi carabinieri abbiamo arrestato quasi cento persone e sequestrato beni per 150 milioni: sono colpi che ogni volta hanno obbligato la sua rete a creare nuove relazioni e hanno messo in difficoltà i loro metodi di finanziamento». Insomma, «l’effetto complessivo è stato quello di renderlo più vulnerabile».
Ma in questi trent’anni di latitanza, Messina Denaro «è rimasto a capo dei tre mandamenti che compongono la provincia mafiosa di Trapani e ha fatto parte di quella cordata corleonese che ha preso il dominio della Cupola per poi sfidare lo Stato con le stragi. Era l’ultimo uomo in libertà tra quelli che hanno deciso quella strategia. Dalle nostre indagini e da quelle delle altre forze di polizia emergono i tentativi di dare nuovi assetti a Cosa nostra, ricostruendone le strutture di vertice: per due volte hanno cercato di riformare una cupola. Siamo riusciti a intercettare questi piani di assestamento e contrastarli: se saremo bravi, gli impediremo di farla rinascere».
I carabinieri hanno trovato il covo del latitante a Campobello di Mazara, nel trapanese, paese del favoreggiatore Giovanni Luppino, finito in manette insieme al capomafia. Il nascondiglio, secondo quanto si apprende, è nel centro abitato.
E ora si prosegue a indagare per capire chi lo ha protetto. «Le indagini sulle coperture stanno proseguendo, anche in queste ore. Come tutti quelli che si occupano di criminalità organizzata, so benissimo che la forza delle mafie consiste nella capacità di gestire relazioni esterne», spiega Angelosanto. «Queste sono intessute con pezzi della borghesia: imprenditori, professionisti, funzionari della pubblica amministrazione. Ma bisogna sempre tenere presente che sono rapporti personali, non con intere categorie: le generalizzazioni non aiutano le inchieste».