A distanza di pochi mesi dalla presa di possesso delle stanze di via Arenula da parte del nuovo ministro, si può comprendere il dispetto di chi, in buona fede, nutriva la speranza che Carlo Nordio avrebbe riabilitato il garantismo situazionista della destra italiana, trasformandolo in qualcosa di diverso da quell’ipocrisia a geometria variabile, per cui le norme penali, sostanziali e processuali, si giudicano non per quello che sono, ma per quelli a cui servono o nuocciono.
Su questa base, gli avvocati della Real Casa berlusconiana hanno potuto combinare per svariati decenni un diritto penale perbene per le persone perbene e un diritto penale permale per le persone permale. La deriva sovranista della destra berlusconiana non ha mutato, ma semmai aggravato il segno oscenamente classista (in senso economico, sociale e razziale) di questa dottrina, rendendo ancora più evidenti e grottesche le contraddizioni tra il garantismo parolaio e il panpenalismo ideologico.
Non stupisce poi che questa miscela tossica piaccia o non dispiaccia così tanto all’elettorato, educato da destra e sinistra a pensare che la giustizia sia semplicemente la prosecuzione della politica con altri mezzi e abbia a che fare con gli stessi mali e dunque l’una vada adeguata all’altra, di modo da prendere a tenaglia i “cattivi”, essendo però variamente e arbitrariamente predeterminati il loro genere e le loro specie.
Infatti, il dibattito sulla giustizia ormai questo è: una lite senza fine su chi siano i cattivi da punire, conformando il sistema penale a questa necessità.
Che la civiltà del diritto si debba prudentemente fermare di fronte all’inciviltà del nemico non è (quasi) mai in discussione. A finire in discussione e a divenire oggetto di imputazione politica è semmai chi si ostina a esigere nei codici garanzie «per farla fare franca ai farabutti», come disse meravigliosamente Piercamillo Davigo, uno che notoriamente non ha paura di dire quello che pensa, né di pensare quello che dice a proposito di quella che dovrebbe essere una sana cultura della legislazione e della giurisdizione penale.
In questo quadro ci voleva una buona dose di fegato e di ingenuità per pensare che il garantismo accademico di un ministro embedded nelle nutrite fila del giustizialismo azzurro-nero-verde avrebbe da un giorno all’altro cambiato di segno la cultura della sua compagnia. E a consigliare prudenza sono stati anche i primi passi di Nordio, che non ha fatto un plissé e apposto la sua firma sulle pressanti richieste di spezzare le reni ai rave party, resuscitare l’ergastolo ostativo attraverso l’imposizione di una probatio diabolica agli ergastolani, iniziare a differire e sabotare le norme più sensibili della riforma Cartabia.
Rimane però il fatto, decisamente indubbio, che sulle intercettazioni Nordio non si è piegato alla vulgata e ha tenuto il punto anche di fronte al tentativo di usare l’arresto di Matteo Messina Denaro come prova provata della necessità civile del cosiddetto «intercettateci tutti».
Ci sono poche possibilità, visto il fuggi fuggi di tutti gli esponenti della maggioranza dal pericolo di non apparire abbastanza antimafia, che Nordio a breve (o a lungo) tempo possa davvero intervenire sulle intercettazioni giudiziarie. Ma visto che tutti, a destra come a sinistra, molto concedono e nulla però fanno sul problema sull’abuso della loro pubblicazione, questo è un terreno su cui Nordio dovrebbe e potrebbe attaccare subito, sfidando destra e sinistra a fare sul serio.
La questione, peraltro, dal punto di vista tecnico è di una disarmante semplicità. È chiarissimo quali intercettazioni non possono essere pubblicate ed è altrettanto chiaro che sono quotidianamente pubblicate o addirittura “trasmesse” sulla gran parte delle testate giornalistiche.
L’articolo 114 del codice di procedura penale stabilisce che non si possono pubblicare le intercettazioni, che siano o meno coperte da segreto, «fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare» (articolo 114, comma 2 del codice di procedura penale). C’è una sola eccezione – farina del sacco del “garantista” Orlando – che riguarda le intercettazioni contenute nelle ordinanze di custodia cautelare, trasformate così in un veicolo autorizzato di presputtanamento mediatico.
Pubblicare le intercettazioni vietate, poi, è un reato contravvenzionale da operetta. L’articolo 684 del codice penale stabilisce che «chiunque pubblichi, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione, è punito con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da euro 51 a euro 258». Due-cento-cinquantotto-euro, al massimo.
È del tutto inutile rafforzare i divieti, se le sanzioni non sono minimamente commisurate al guadagno (economico, politico, relazionale) che la violazione procura ai contravventori, incentivando una pratica ricettatoria spacciata come il non plus ultra della libertà dell’informazione e del giornalismo d’inchiesta.
Allora, sarebbe interessante scoprire cosa succederebbe se Nordio, che ha dichiarato di essere pronto a battersi fino alle dimissioni contro la diffusione abusiva delle intercettazioni, portasse in Consiglio dei ministri un disegno di legge di due soli articoli. Il primo per depenalizzare la pubblicazione non autorizzata degli atti di indagine, prevedendo però una sanzione amministrativa pecuniaria effettivamente disincentivante. Il secondo per non ammettere deroghe, neppure nel caso dell’ordinanza di custodia cautelare, al divieto di pubblicazione delle intercettazioni fino alla conclusione delle indagini preliminari.
Ancora più interessante sarebbe scoprire se Nordio farà davvero un passo di questo tipo o continuerà a discutere del tema con acribia convegnistica, ma con irrilevanza o negligenza politica.