Il coniglio con le patate che prepara la signora Pina Di Nardo deve marinare almeno un’ora e mezza nella pentola di rame. Non è mica quello morbido del supermercato, ma quello allevato in campagna, come una volta. Più duro al morso, forse, ma pure più saporito. La morte sua? Alla brace e «sotto al coppo» di ferro, utensile tradizionale con cui generazioni di donne abruzzesi hanno sfamato gli uomini di ritorno dalle campagne. Oggi si usa sempre di meno. Ma con questa tecnica, Pina ha reso famoso l’agriturismo Caniloro di Lanciano (Ch). Che porta avanti insieme al marito Berardino Abbonizio. Un’istituzione della cucina frentana alla vecchia maniera.
La signora Rita Stinziani, 59 anni, invece, si alza ogni giorno all’alba da 20 anni. È molisana di Trivento, ma si è trasferita pochi chilometri a Nord. A Fraine, in Abruzzo, trasforma in nodini, caciotte, scamorze, ricotte o altre delizie il latte delle 40 vacche dell’azienda agricola di famiglia, Le Frainelle. Produzione completamente artigianale. Lavora con un sorriso contagioso, ma casara lo è diventata per necessità. Quando era già mamma di due bambine, ha dovuto imparare il mestiere. Perché da sole le mucche e il latte non bastavano per tirare avanti. Poi c’è Carla Di Crescenzo, 59 anni, che è di Filetto (Ch) e si è sposata a 16 anni. A quell’età ha iniziato a guidare i trattori perché serviva una mano nei campi. Ora con le sue mani impasta pizz e foje, specialità che serve nel suo agriturismo, La Brocca, a San Martino sulla Marrucina. Ha la battuta pronta ma mentre ci racconta la sua storia non nasconde preoccupazione per il futuro. Perché la figlia «aiuta e non aiuta».
La Frentania è una regione sud orientale dell’Abruzzo che abbraccia la provincia di Chieti e prende il nome dal fiero popolo osco che sfidò il potere di Roma insieme ai Sanniti circa un secolo prima di Cristo. La storia di questo territorio è una storia di sacrifici, sudore nei campi e terre abbandonate. E soprattutto una storia di donne. Custodi delle tradizioni culinarie non scritte e della famiglia. Mamme ma anche contadine, artigiane, osti e imprenditrici. Quando c’era da rimboccarsi le maniche per salvare il loro mondo dallo spopolamento delle aree interne, loro hanno imparato nuovi mestieri, contribuendo con idee e con sudore a mettere al sicuro le attività. Da qualche tempo (2021), Slow Food Lanciano e Gal Maiella Verde (gruppo di azione locale promosso dall’Unione europea per sviluppare piani e programmi di interventi dedicati al miglioramento socio-economico delle comunità rurali) stanno portando avanti un progetto per rivalutare le tradizioni di questi posti. Si chiama «Cucina popolare frentana» e il suo obiettivo duplice è quello di conservare gli antichi sapori, rinsaldando allo stesso tempo l’economia locale basata sulle eccellenze. In questo modo si possono spingere i giovani a rimanere nel proprio territorio con nuove idee senza dimenticare il passato. Si è partiti dalle cose semplici come organizzare eventi, laboratori, coinvolgendo gli agriturisimi che propongono menu tipici e stagionali, e seguono la religione, quella vera, del chilometro zero. «Con tale progetto vogliamo dare nobiltà a un tipo di cucina lontana dai riflettori, ma autentica e democratica – ci ha spiegato Raffaele Cavallo, presidente di Slow Food Abruzzo e Molise – che rischia di scomparire perché il tempo per cucinare è sempre di meno, anche in queste zone». Il secondo step è stato poi un lavoro capillare sui singoli prodotti – la provincia di Chieti è la seconda della regione per numero di presidi Slow Food dopo quella dell’Aquila – per valorizzare le eccellenze ma anche le persone che le producono. Queste due attenzioni si incrociano nel progetto grazie all’iniziativa del 2022: la creazione, cioè, di un video archivio online in cui si raccontano, in pochi minuti, antiche ricette tramandate oralmente e pure le storie di chi ne è custode.
Le protagoniste, in molti casi, sono ovviamente le donne. La signora Pina ad esempio è stata scelta nel progetto come custode del coniglio cucinato sotto al coppo. «Quando non c’erano i forni elettrici, le pietanze venivano messe e in una teglia sui mattoni accanto al fuoco acceso nel caminetto», racconta nel video lei che in agriturismo lo fa ancora così. Nel cortile, infatti, c’è un «forno» lunghissimo su cui si possono accendere almeno tre braci. Attorno sono appesi i peperoni dolci di Altino, e sopra troviamo un vecchio coppo celebrato da un epitaffio. C’è scritto: «Qui riposa il coppo n.21 che nelle mani di Zia Miranda & Compani… ha deliziato abbastanza palati».
«Il coniglio viene prima marinato con aglio, cipolla, rosmarino, prezzemolo, olio, vino e patate. Lo cuocio nel camino, dove lo copro col coppo che è una sorta di campana di ferro su cui appoggio il carbone e la cenere. Dopo tre quarti d’ora scopro il coppo, lo pulisco e giro il coniglio nella teglia – spiega – poi lo rimetto dentro per lo stesso tempo». In cucina oltre a lei ci sono le altre donne della famiglia. L’ultima generazione è Elisabetta che ha 27 anni, e come dice papà Berardino, «sta iniziando a prenderci la mano, per fortuna».
«Sono nato proprio lì, in quella stanza – ci indica il signor Abbonizio mentre racconta la storia dell’attività. Trasformare l’azienda agricola in agriturismo è stata la carta che si sono giocate molte famiglie dell’entroterra per non abbandonare i possedimenti. Lo sa bene Carla, che mentre ci racconta la pizz e foje, erbe di campagna cotte in padella e accompagnate da pizza non lievitata di gran turco, sarda fritta e peperone secco, si imbarazza. «Non sono fotogenica», dice, ma si sbaglia. Perché tutti sono rapiti dalla sua spontaneità che traspare anche dietro l’obiettivo di chi vuole immortalare la preparazione. Vicino a lei, nella cucina dell’agriturismo La Brocca, c’ è Antonella che prima del covid faceva l’istruttrice di zumba, ora affianca Carla che vicino ai fornelli, mentre spezzetta la pizza e la mescola alle verdure, sospira. «Mia figlia è sposata con due bambini e non riesce sempre a starmi vicina. Non so come vedo il futuro. Spero che Dio mi dia la forza di andare avanti il più possibile». La signora Maria Travaglini, 70 anni, dell’Agriturismo Travaglini di Casoli, invece, dopo una vita in cui si è svegliata all’alba cucinando per il marito Antonio e i suoi trebbiatori, può contare oggi sull’aiuto della figlia Claudia. «È stata una vita faticosa. Ma insieme a mio marito abbiamo fatto squadra e con la nostra voglia siamo andati avanti. Ho avuto, poi, una buona suocera che mi ha voluto tanto bene – ammette sfatando il classico tabù. Claudia? È cresciuta in cucina e se si impegna è anche più brava di me. Soprattutto con i dolci (ride, ndr)».
Claudia, che ha ascoltato la conversazione, ride anche lei e irrompe nel discorso. «Mia madre ha un raggio di azione di 30 metri che va dalla camera da letto alla cucina». E mentre scherza, mamma Maria continua a friggere le pallotte cac’ e ove (polpette impastate con caciotta frentana e uova, fritte e poi passate nel pomodoro). Il futuro sembra proprio in buone mani.
Per assicurarlo alla propria famiglia, alcune donne hanno dovuto imparare mestieri tradizionalmente maschili e sacrificare anche corpo e vanità. La casara Rita, già mamma, ha dovuto fare un tirocinio nell’azienda molisana Pallotta, per produrre da sola formaggi e latticini dell’azienda. Accanto alle vasche ha una spatola di legno per lavorare la pasta che si è assottigliata col tempo. «La uso da quando ho iniziato – sorride timidamente – ormai mi scivolano gli oggetti di mano perché la pelle si è consumata a furia di tenerla nell’acqua bollente». Anche le figlie danno una mano. Si dividono tra punto vendita e caseificio, mentre gli uomini allevano le vacche con cui fanno anche transumanza verticale, alla vecchia maniera. Una vita di fatiche, riscattata da prodotti caseari incredibili realizzati a latte crudo.
A Carunchio, paesino di 628 anime non molto lontano, si produce la ventricina del vastese, salume realizzato con cosce, lombo e spalle del maiale e il peperone dolce d’Altino che gli conferisce il tipico colore rossastro. «Questo è uno dei primi presidi Slow Food d’Italia – spiega Cavallo – e oggi rappresenta l’emblema di questo territorio di cui è diventato un brand. I suoi produttori? Sono tutti artigiani».
La famiglia Caracciolo, che possiede il salumificio La Genuina, è stata una delle prime realtà a credere nel potenziale di un prodotto che tradizionalmente veniva consumato nelle occasioni speciali: vendemmia, mietitura, e anche matrimoni. Viene affettato oppure aggiunto al sugo di pomodoro. Luciano Caracciolo, 58 anni, macellaio e maestro di questa squisitezza insaccata, ne conosce tutta la storia. C’era anche lui quando la ventricina fu portata circa 20 anni fa al Salone del Gusto. Purtroppo non ha eredi che possano continuare l’attività, almeno quella manuale. La moglie Domenica Ranni, 54 anni, aiuta dove serve, ma le due figlie vivono fuori, e per ora possono stare in azienda solo saltuariamente. Elena, 28 anni, sta conseguendo la sua terza laurea in Filosofia a Roma ma il suo sogno è fare la giornalista, mentre Donatella, 22 anni, frequenta Ingegneria e un giorno vorrebbe gestire l’attività di famiglia. Chi si unirà allora a Luciano nell’insaccare con la stessa cura le ventricine? L’erede designato è Giuseppe, 24 anni e fidanzato di Donatella, che insieme al suocero lavora 10 maiali a settimana per 5 mesi.
Pesante il lavoro del macellaio. Molti non lo reputano adatto a una donna. Ma non ditelo a Concetta Troilo, 44 anni, professione macellaia. È sposata con Tiziano Teti, titolare insieme al fratello Giuseppe della Fattoria La Guardata di Torricella Peligna, produttore di un’altra eccellenza locale, il salsicciotto frentano. È lei a lavorare la carne dell’azienda – che tratta pecore, vitelli e maiali – insieme alla sorella Isabella che invece ha sposato Giuseppe. I fratelli Teti, negli anni ’80, hanno recuperato le terre abbandonate dalle famiglie nel dopoguerra rintracciando i proprietari, uno per uno. E portando i 10 ettari che possedeva il padre Vincenzo ai 200 attuali. Mentre loro si occupavano dell’allevamento, le donne della famiglia si sono prese cura dell’attività in paese: «Nella macelleria, fondata nel 1964, c’erano i miei suoceri. Dopo la morte di mia suocera Domenica, già macellaia, toccava a noi continuare l’attività di famiglia. Dovevamo decidere se andare avanti così o proseguire solo con l’allevamento. Alla fine io e mia sorella abbiamo preso il suo posto – racconta Concetta mentre Isabella lavora l’agnello – è un mestiere faticoso per una donna, soprattutto fisicamente, infatti a spostare le carni ci aiuta mio figlio, Paolo. In realtà volevo fare l’infermiera, ma sto bene qui». Tra mannaie, sangue e celle frigorifere, poi, c’è spazio anche per «il tocco femminile». «Senza nulla togliere ai maschietti, noi donne abbiamo una marcia in più nelle preparazioni al banco e nel suo allestimento. La parte bella del mio lavoro? Quando faccio un bel banco sono davvero molto soddisfatta. Le mie cosce al latte sono imbattibili, ci vogliono copiare ma non ci riescono: sono cosce disossate, ammorbidite nel latte e panate».
In azienda c’è anche la figlia Giorgia, 24 anni, che magari non ama la mannaia, ma vuole dare comunque una mano in azienda. Anzi la sta già dando. «Non dimenticherò mai i racconti che papà mi faceva di nonna: lavorava mentre era incinta e usava il pancione per appoggiare la carne. Oggi mia mamma è la vera forza della famiglia. Io studio Economia a Pescara e voglio chiudere il cerchio – racconta – qui do una mano un po’ dove serve. Stiamo completando una struttura vicino agli allevamenti dove degustare in loco i nostri prodotti ed accogliere i clienti, fare aperitivi e organizzare eventi con la vista suggestiva della Majella (monte locale, ndr)». In primavera i lavori saranno completati e nasceranno pure nuove idee, nel nuovo chalet di famiglia, come lo chiama Giorgia. «Lo gestirò io insieme a papà, e allestirò anche l’e-commerce per vendere i nostri prodotti fuori regione». E la macelleria? «Preferisco occuparmi della parte ricettiva, ma se avessero bisogno di me non rinuncerei mai, per la famiglia. Il banco lo so già preparare ma la spolpatura della carne, quella no. La sa fare solo mamma».