C’è Giorgia Meloni, e ci sono i meloniani. Un po’ Biancaneve e i sette nani. Lei leader, quelli piccoli piccoli e persino fastidiosi. Meloni comincia persino a piacere a un pezzo di elettorato non di destra, loro nuotano nei rigagnoli dell’estrema destra. Mentre la presidente del Consiglio pare ormai l’unico punto di riferimento dell’establishment e mentre dentro la sinistra democratica c’è chi si meraviglia ogni giorno del coraggio o del bidenismo da lei mostrati e mentre gli intellettuali e il ceto medio riflessivo menano il can per l’aia, c’è da dire che ogni volta che parla un Giuseppe Valditara (che non è di Fratelli d’Italia ma è come se lo fosse) o un Gennaro Sangiuliano o il di lei Dottor Sottile, Giovanbattista Fazzolari, per non dire del duo Donzelli&Delmastro (a La Russa tutto è permesso essendo ormai un personaggio), quando aprono bocca i sette nani ti cascano le braccia.
Ora qui, come canta Elodie, le cose sono due: o Giorgia si è davvero emancipata dal nucleo più retrivo ed eccitato del suo partito o è tutto un gioco delle parti nel teatro di cartapesta della politica – lei statista europea, loro militanti da marciapiede. Ce lo dirà il futuro se la Garbatella non abita più a palazzo Chigi.
Certo è che come il braccio del dottor Stranamore ogni tanto a destra scatta quel certo becerume che per esempio ieri ha portato il ministro dell’istruzione e del merito (!) a bacchettare la dirigente scolastica del liceo scientifico “Leonardo da Vinci”, Annalisa Savino, la quale dopo il pestaggio a opera di una squadraccia “nera” davanti al liceo fiorentino “Michelangelo” aveva scritto una lettera ai suoi studenti: «Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti».
Il ministro Valditara non ha gradito, forse, il riferimento ad Antonio Gramsci sull’indifferenza, quel povero Gramsci che non hanno letto e al quale viene imputata la responsabilità della mitica egemonia culturale della sinistra. Ma al di là di questo, Valditara erettosi a giudice dei docenti ha sentenziato che quella lettera è sbagliata anche perché non esiste un reale pericolo di fascismo: e magari può anche aver ragione ma che, decide lui quello che si può dire e quello non si può dire?
C’è qui il medesimo riflesso di questa destra nei confronti di Sanremo, il tic del controllo preventivo, l’arginare opinioni non condivise mettendo anzi in dubbio persino la possibilità di esprimerle, l’irrefrenabile tendenza di “ripigliarsi tutto ciò che è nostro” – Dante, i musei, la scuola, i libri – e al diavolo tanto Gramsci che Fedez.
Non sfugge che nelle varie intemerate dei suoi sottoposti Meloni si guardi bene (tranne che nella difesa di Donzelli) dall’intervenire, come se mandasse a dire che questi so’ ragazzi e che lei ha ben altro standing: ma come fare per separare Meloni dai meloniani? Come distinguere le responsabilità di Biancaneve da quelle dei sette nani? L’assillo lo deve avvertire lei per prima visti i sospetti che nutre su tutti quelli che non siano del giro stretto familiar-amicale: sul Foglio Carmelo Caruso ha usato la parola terribile «paranoia», quella di Riccardo III, si parva licet, e si sa come finì la storia.
È chiaro che si sta andando verso il modello della donna sola al comando, modello che è perfetto se rifulgi ma pessimo se annaspi: gli esempi non mancano. Ed è paradossale che questo torsione in senso personalistico della politica avvenga in uno dei pochi partiti politici tradizionali ancora in vita. Una donna sola come Biancaneve, questa è Giorgia Meloni, nel bene e nel male.