Potenza in cortocircuitoAlla Polonia manca un ultimo passo sullo stato di diritto per entrare tra le grandi d’Europa

Il riposizionamento di Varsavia in un’Unione che sposta il suo asse verso Est passa dalla sintonia ritrovata con gli Stati Uniti. Già protagonista ai tempi del Maidan, e poi emarginato durante i primi governi sovranisti, il Paese può rivendicare gli avvertimenti di questi anni sulla Russia

Il presidente americano Biden con quello polacco Duda a Varsavia
Foto: AP Photo/Czarek Sokolowski

«Gli Stati Uniti hanno bisogno della Polonia, così come la Polonia ha bisogno degli Stati Uniti». Joe Biden lo ha detto chiaramente al termine dell’incontro privato con il presidente polacco Andrzej Duda, avvenuto martedì scorso a Varsavia. Qualche ora dopo il capo di stato americano sarebbe salito sul palco allestito ai piedi del Castello Reale della capitale polacca per pronunciare un accorato discorso, che ha sancito una volta di più il sostegno degli Stati Uniti e dell’Occidente alla causa ucraina.

La scelta di tornare a Varsavia per la seconda volta in meno di un anno, a pochi giorni dal primo anniversario dell’inizio della guerra, è stata da molti osservatori polacchi salutata come “storica”. La Polonia è a tutti gli effetti uno degli attori principali del conflitto che si combatte nella vicina Ucraina, un ruolo che però solo un anno e mezzo fa non era così scontato, e che oggi ribalta e mette in discussione il ruolo del Paese all’interno del suo consesso naturale, quello europeo.

Agli albori del Maidan
Tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, quando nacque la spinta di protesta popolare che portò alla rivoluzione del Maidan. l’Europa si trovò investita del ruolo di mediatrice. La protesta scaturiva dopo tutto dalle istanze europeiste di quella parte di popolazione che si sentiva tradita dalla decisione dell’allora presidente ucraino Viktor Janukovič di interrompere le trattative di adesione all’associazione di libero scambio con l’Unione europea.

Fu inviata allora un’inedita formazione composta dal ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, da quello francese Laurent Fabius, e da quello polacco Radosław Sikorski. La presenza di quest’ultimo rappresentò allo stesso tempo una novità e una sorta di consacrazione per la Polonia, che in quegli anni stava conoscendo una forte trasformazione.

Il governo a trazione liberale di Donald Tusk che guidava il Paese dal 2007, aveva portato una rapida crescita economica, e una progressiva crescita dell’importanza della Polonia in sede internazionale. Era una Polonia che a pieno titolo veniva considerata la forza emergente d’Europa. Durò poco.

Il governo di Piattaforma Civica (PO) entrò presto in una crisi di consensi, al punto che Tusk, che da lì a poco avrebbe assunto l’incarico di presidente del consiglio europeo, diede le dimissioni. A occuparsi della crisi ucraina, che nel frattempo aveva visto l’occupazione della Crimea da parte degli “omini verdi” di Putin e l’inizio delle ostilità nel Donbas, rimase l’asse franco-tedesco.

Furono Angela Merkel e Francois Holland a mediare gli accordi di Minsk 1 e 2. Il cosiddetto formato Normandia, chiamato a sovrintendere, senza troppo successo, il rispetto dei trattati, rimase invariato fino alla fine.

La Polonia scomparve definitivamente di scena con la schiacciante vittoria dei conservatori di Diritto e Giustizia (PiS) alle elezioni del 2015. La Polonia divenne il secondo avamposto sovranista d’Europa, affiancando l’Ungheria di Viktor Orbán, in un’estenuante battaglia con l’Unione europea sulla questione dello stato di diritto che dura fino ad oggi. Una posizione che non poteva che portare a un rapido isolamento.

Da Trump a Biden
Se il rapporto con l’Unione europea entrò in una profonda crisi, la Polonia guadagnò un importante amico oltreoceano quando Donald Trump vinse a sorpresa le amministrative americane. Quelli di Trump alla Casa Bianca furono anni di grande sintonia con Varsavia, al punto che quando l’esperienza di “The Donald” finì, sconfitto da Joe Biden, la reazione del governo polacco e in particolar modo del presidente Andrzej Duda, fu molto fredda.

Sul piano internazionale la Polonia tornò di nuovo all’angolo, poi però accadde qualcosa. Sul finire del 2021 il parlamento polacco approvò un contestato disegno di legge che andava a riformare la concessione delle licenze radiotelevisive. Il disegno di legge era conosciuto come «Lex Tvn», in quanto andava a colpire esclusivamente la televisione privata Tvn, principale concorrente della rete pubblica Tvp, e non allineata al governo.

Il provvedimento irritava fortemente Washington dal momento che Tvn è di proprietà della società americana Discovery, e frenetica fu l’attività diplomatica in quei giorni. Alla fine l’iter legislativo fu bloccato in extremis da Duda, che pose il veto alla legge. Da quel momento il presidente polacco diventò il referente preferito di Washington. La guerra in Ucraina si stava profilando all’orizzonte, e non si poteva perdere un alleato così prezioso.

Amici come prima
Dal punto di vista polacco l’invasione russa dell’Ucraina non fu una sorpresa. Da anni Varsavia metteva in guardia i suoi vicini occidentali sulle intenzioni di Mosca e avversava con ogni forza la costruzione del gasdotto Nord Stream 2. Dal primo giorno di guerra la Polonia è scesa in campo al fianco di Kyjiv sotto ogni aspetto.

In prima battuta sotto il profilo umanitario. La Polonia diventò la porta d’ingresso di una delle più grandi ondate di rifugiati che la storia ricordi. Dallo scorso anno sono dieci milioni le persone di nazionalità ucraina che hanno varcato i confini del Paese. Di queste 1,5 milioni si sono stabilite permanentemente.

Un’ondata che inizialmente contava quasi centoquarantamila ingressi al giorno. Nei primi mesi, oltre ai centri di accoglienza organizzati dalle autorità locali e dal governo, una grande sforzo è stato compiuto dalla popolazione, che ha letteralmente aperto le porte delle proprie case ai rifugiati.

Il secondo piano di intervento fu quello politico. Il 16 marzo, mentre Kyjiv era ancora sotto assedio, una delegazione composta dal leader di Diritto e Giustizia Jarosław Kaczyński, dal primo ministro polacco Morawiecki, da quello ceco Petr Fiala e dell’allora premier sloveno Janez Janša si diresse in treno verso la capitale ucraina. Erano i primi politici occidentali a entrare a Kyiv dall’inizio della guerra. Un segnale politico molto forte, considerando che si trattava di leader della cosiddetta «nuova Europa».

Il terzo aspetto fu quello militare, con la Polonia che si è trasformata in porta di accesso privilegiata per l’ingresso degli armamenti a Kyiv, attirandosi così l’ira e le minacce del Cremlino.

Varsavia ha soprattutto potuto mettere sul piatto la sua linea di condotta di intransigenza verso il Cremlino. Una linea rivelatasi corretta, soprattutto se confrontata confronta a quella politica ed energetica operata dalla vicina Germania negli ultimi vent’anni. Più volte Berlino si è dovuta confrontare con il vicino orientale, su decisioni chiave, come ad esempio sulle sanzioni.

Il governo polacco si è trovato più volte a pungolare quello tedesco quando questo si è trovato a tentennare. Lampante quando accaduto con il caso della fornitura dei Leopard, dove il pressing di Varsavia e Washington ha fatto crollare anche una delle pietre miliari della politica di difesa tedesca.

Paradosso d’Europa
La Polonia “ritrovata” rappresenta però al tempo stesso il più grande cortocircuito europeo. Partner prezioso nella guerra alle porte di casa, essa stessa combatte da anni con Bruxelles una battaglia senza esclusione di colpi. La questione dello stato di diritto è ancora lì, e tiene bloccati i 35,4 miliardi di Euro del Recovery Fund che spetterebbero a Varsavia.

La guerra in Ucraina è diventata una leva fondamentale nella disputa. Se il governo polacco ha disperatamente bisogno di quei soldi, soprattutto in previsione delle prossime elezioni autunnali, Bruxelles non può permettersi di tirare troppo la corda. Per questo motivo il rapporto tra le due parti nell’ultimo anno è stato di continui alti e bassi, alternando momenti di grande tensione a improvvise aperture.

L’ultimo capitolo della saga ha visto la Commissione europea deferire la Polonia alla Corte di Giustizia europea per la violazione del diritto europeo da parte del Tribunale Costituzionale polacco. Lo stesso Tribunale, che da anni ha perso la sua indipendenza dall’esecutivo, si dovrà prossimamente esprimere sulla costituzionalità di un importante disegno di legge che dovrebbe modificare parzialmente il funzionamento della Corte Suprema.

Un disegno di legge che nei piani del governo dovrebbe sbloccare i fondi europei. Insomma, la questione polacca è più intricata che mai e si muove su più livelli. Il giorno in cui sarà finalmente risolta, a quel punto l’Europa potrebbe davvero ritrovarsi con un nuovo volto e un nuovo assetto.