Che cos’è la ricchezza? Domanda non scontata. Il senso comune lo sa d’istinto, ma provate a spiegarlo. Essere ricchi significa avere tutto il denaro che si desidera per fare ciò che si vuole. Ecco: questa probabilmente è la risposta più comune. Chi è ricco ha tutto, chi è povero ha niente: eccone un’altra. Paperone è ricco, Paperino è povero. Tutto chiaro, che c’è da aggiungere?
Senonché ragionare per assoluti funziona nei fumetti, ma non nella realtà. La realtà è tremendamente complicata. Perché esistono sicuramente i Paperoni, senza contare i tanti Paperini, ma tutti gli altri sono più numerosi. Per questo nel tempo abbiamo dovuto imparare a misurarla, la ricchezza.
Se ne occupò, fra gli altri, sir William Petty, in pieno XVII secolo, chiamato a ragionare su come misurare il valore di alcuni terreni per fini squisitamente impositivi – le tasse del governo – finendo col contribuire alla nascita dell’aritmetica politica. Si comprese subito che misurare la ricchezza era una cosa terribilmente difficile. E perciò è difficile sapere anche quanto siamo ricchi. O, senza un termine di paragone, addirittura se lo siamo davvero.
Pensate a quanto varrebbero i fantastiliardi di Paperone se improvvisamente la moneta che li denomina non valesse più nulla. Durante la terribile inflazione del 1923 in Germania erano tutti fantastiliardari. Eppure non riuscivano a comprare il pane. Per fortuna c’è il mattone, direbbe sempre il caro vecchio senso comune. O la terra, meglio ancora. «Vedi la terra dove arriva il tuo occhio», si usava dire in certi romanzi popolari del XIX secolo, «quella è tutta mia». Bene: sei ricco di terra. Ma la terra, a meno di non essere coltivata, non sazia la fame. E se nessuno la lavora, la terra diventa il paradiso dei parassiti. Il mattone non è così diverso.
Inizia allora a sorgere il sospetto che la ricchezza non abbia a che fare solo con i soldi. E neanche con la terra, il mattone o i gioielli, i cosiddetti beni reali. Per dirla meglio: queste cose sono usualmente simboli della ricchezza. Ma anche questo è vero fino a un certo punto. Alcune società, ad esempio quelle nomadiche, misurano la ricchezza in greggi. Altre – l’antropologia è piena di esempi istruttivi – con altri beni ancora. Che dobbiamo dedurne?
Proviamo così: la ricchezza ha a che fare con l’abbondanza di alcuni beni ai quali un certo tipo di società assegna un’importanza primaria, perché dotati di potere di liberazione dai bisogni che quella stessa società esprime. Diciamolo meglio: sono tanto più ricco quanto più posso disporre di mezzi per assicurarmi il benessere. Su cosa sia il benessere, però, ne parliamo in un altro libro.
La definizione di questi mezzi ha a che fare con la struttura istituzionale di una società. Una società di pastori conta le pecore, una società di capitalisti conta i soldi. Noi occidentali siamo capitalisti da alcuni secoli, fra svariati alti e bassi; il resto del mondo più di recente, e forse per questo ha meno soldi di noi. Il che è sicuramente molto spiacevole, ma non è certo un destino. La ricchezza autentica ha sempre margini di miglioramento.
Oggi la ricchezza è quella che – per rimanere in casa nostra – Bankitalia e Istat misurano ogni anno attingendo ai conti nazionali e alle indagini campionarie (Banca d’Italia, 2022). La ricchezza degli italiani è una serie statistica ormai ultradecennale che dovrebbe appartenere al senso comune, almeno come accade al nostro famigerato debito pubblico, che ci accompagna da quando siamo neonati.
E invece non è così. Sappiamo tutti di avere più di due trilioni e mezzo di debito pubblico, ma tendiamo a ignorare che le famiglie italiane – e tralasciamo le imprese – hanno ricchezza per dieci trilioni fra attivi finanziari e beni reali, che al netto dei debiti privati – fra i più bassi d’Europa – ci classificano quantomeno fra i benestanti. Ma guai a dirlo: arriverà subito qualcuno che squadernerà l’ultima rilevazione Istat sulla povertà, dove emerge che il 17 per cento delle famiglie, 922 mila, vive in povertà assoluta (Istat, 2021). A seguire la storiella del pollo di Trilussa, a onta dell’uso spregiudicato delle medie semplici, e infine il grande convitato di pietra: la Diseguaglianza.
Le nostre cronache si somigliano tutte e servono poco a svelare l’enigma della ricchezza. Forse perché è una storia che parte da lontano. Perciò conviene riavvolgere il nastro. Tornare da dove tutto è cominciato.
Da “La Storia della ricchezza” di Maurizio Sgroi, Diarkos, pagine 432 Prezzo 22,00 euro