Lontano dagli occhi Perché le tensioni in Nord Kosovo non sono vicine a una soluzione, anche se ne sentiamo parlare di meno

Le manifestazioni seguono spesso fatti di cronaca che coinvolgono la minoranza serba. Un po’ di nastro adesivo copre le targhe, ma per il resto non basterà l’accordo franco-tedesco. L’epicentro delle tensioni resta Kosovska Mitrovica, la città divisa

Le proteste dell'8 gennaio a Kosovska Mitrovica
Foto di Gianluca Carini

Arresti, targhe e un progetto autonomista ritenuto insufficiente: le tensioni in Nord Kosovo sono ultimamente meno al centro dei riflettori occidentali ma, non per questo, vicine a una soluzione. Il 28 gennaio, nella parte settentrionale di Kosovska Mitrovica, una quarantina di serbi si sono ritrovati sotto la sede del Sns, il partito del presidente serbo Aleksandar Vučić, accusato di essere un traditore della minoranza.

«Kosovo je Srbija» («Il Kosovo è Serbia») recitava l’eloquente striscione srotolato. I manifestanti hanno chiesto alla Rosu, la polizia kosovara, di abbandonare le aree a forte presenza serba (il Nord e la Metochia) e di liberare le persone arrestate nel corso delle rivolte. Rimane poi la questione delle targhe serbe (nonostante l’accordo, l’accusa è di non fare entrare le automobili “marchiate” Belgrado) e, infine, la bocciatura del progetto a forte impronta europea di «Associazione dei comuni serbi», che vorrebbe garantire un regime autonomo alle parti serbe del Kosovo, giudicato insufficiente.

Tanto per rendere l’idea del clima, il sito serbo Danas ha riportato che uno degli oratori, Nebojša Jović (Movimento per la Difesa del Kosovo), ha notato l’assenza di molti partecipanti rispetto alla precedente protesta (tenutasi l’8 gennaio con circa duecento partecipanti), vedendoci dietro un intervento dei «servizi» e accusando anche la Srpske liste, il partito che dovrebbe rappresentare la minoranza serba ma che viene da molti visto solo come longa manus di Vučić, ritenuto colpevole di non fare abbastanza per i serbi oltre confine.

Nel Nord Kosovo, le manifestazioni seguono spesso fatti di cronaca che coinvolgono la minoranza. Il 23 gennaio, due serbi sono stati colpiti da colpi di arma da fuoco sparati dalla polizia kosovara, la Rosu. Uno dei due è rimasto ferito, mentre l’altro ne è uscito illeso. L’episodio è avvenuto a Leposavić, comune abitato quasi interamente da serbi. Il Nord Kosovo, avendo uno status di zona semi-franca, è spesso ritenuto punto strategico di vari traffici illegali.

Secondo la polizia, riporta Balkan Insight, quel giorno era stato schierato un posto di blocco e la macchina dei due non avrebbe rispettato l’alt, colpendo l’automobile degli agenti che avrebbero risposto con il fuoco. «Le due persone a bordo non volevano permettere che la polizia kosovara li maltrattasse senza alcun motivo», è invece l’altra campana. Le tensioni tra la Rosu e i serbi sono continue, e il premier Kurti ha dichiarato che la polizia ha subìto decine di aggressioni da parte della minoranza

Il 6 gennaio, vigilia del Natale Ortodosso, un uomo (secondo alcune fonti, un poliziotto kosovaro fuori servizio) ha aperto il fuoco a Štrpce (Shtërpce in albanese), città nel Sud Kosovo a forte presenza serba. Anche in questo caso i feriti erano due, compreso un bambino di una decina d’anni, colpiti mentre stavano portando con loro dei «badnjak», i rami che si bruciano per tradizione il giorno del Natale Ortodosso. Due giorni dopo, come detto, duecento persone sono andate a manifestare ancora sotto la sede di Kosovska Mitrovica del Sns.

Al centro delle proteste, come detto, c’è però anche l’opposizione all’«Associazione dei comuni serbi», un progetto di forte impronta europea che dovrebbe riunire i comuni a maggioranza serba del Nord Kosovo, prevedendo anche un’unica forza di polizia (salva la possibilità di un comando regionale di polizia “serba” per alcuni comuni).

Una soluzione ritenuta insufficiente dalla minoranza serba e di recente al centro anche di un piccolo giallo: una “manina” ha passato al giornale serbo Danas il testo dell’accordo franco-tedesco sul Kosovo, con tutti i dubbi del caso sulla veridicità del testo inviato. In esso si parlerebbe genericamente di «livello adeguato di autonomia per la comunità serba in Kosovo», ma non verrebbe citata l’«Associazione dei comuni».

Un altro tema su cui Belgrado batte molto è la difesa degli edifici sacri per gli ortodossi in territorio kosovaro. Molti di questi monasteri sono raffigurati nella chiesa di San Sava (la più grande dei Balcani), iniziata nel 1935 e terminata di recente grazie all’aiuto russo. Nella chiesa si trova anche la tomba di Lazar (raffigurato anche lui in molti mosaici), l’eroe della battaglia di Kosovo Polie del 1389, combattuta contro gli ottomani islamici e che ogni serbo conosce.

Si tratta di questioni che, come evidente, hanno radici profonde (e sono abilmente sfruttate dalla propaganda) ed è difficile pensare a un unico accordo “risolutore”. Lo scorso anno, le proteste sono esplose dopo la richiesta, ripetuta più volte fino all’ultimatum, del premier kosovaro Albin Kurti di immatricolare le auto con targhe kosovare (e non più di Belgrado) entro il 31 ottobre.

Una stretta – annunciata ma poi rinviata e oggetto di trattative con la Serbia – che ha generato malumori nella minoranza, restia a riconoscere l’autorità di Pristina. Le tensioni sono esplose poi con l’arresto di un poliziotto di etnia serba e le dimissioni in blocco dei loro rappresentanti istituzionali in Kosovo, con il rischio di un vero e proprio blocco della burocrazia, incentrata sul sistema delle quote etniche.

A fine novembre è stato trovato un accordo: la Serbia si è impegnata a non emettere targhe per le città kosovare (e quindi “fuori casa”), mentre Pristina ha accettato lo stop alle operazioni di re-immatricolazione dei veicoli. Le automobili serbe continuano a girare con delle fascette bianche a coprire i riferimenti alla madrepatria.

Un po’ di nastro adesivo coprirà anche le targhe, ma per il resto può fare ben poco. L’epicentro delle tensioni resta Kosovska Mitrovica, la città divisa: a Nord del fiume Ibar vive la minoranza serba, a Sud gli albanesi. A collegare le due parti, un ponte presidiato giorno e notte dagli uomini della Kfor, la missione speciale della Nato, con un ruolo preminente dei Carabinieri italiani, tra i pochi a essere rispettati da entrambe le parti.

Un ruolo, quello dell’Italia, ancora a metà: da un lato, l’impegno e l’interesse verso i Balcani sono innegabili. Dall’altro, l’impressione è che poi il nostro Paese faccia fatica a imporre i propri interessi, come dimostra il fatto che a venire discusso sia stato un accordo franco-tedesco. Non a caso, intervistato dalla Stampa, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani non ha aperto alla richiesta del premier kosovaro Kurti di altro personale per la sicurezza. «Valuteremo», ha risposto sibillino il titolare della Farnesina, «ne abbiamo già mille».

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter