Sazi delle tradizioni culinarie del carnevale “nordico”, immergiamoci nel bel mezzo della penisola alla ricerca di nuovi gustosissimi costumi.
I ravioli dolci e salati di Ascoli Piceno
Primo piatto e dessert condividono il formato (ma non il ripieno) durante i festeggiamenti ascolani: i ravioli di gallina allietano i palati in attesa di quelli fritti ripieni di marroni, realizzati da ogni famiglia con giorni di anticipo per assicurarsi scorte sufficienti durante tutto il periodo.
I primi sono farciti con carne di gallina, pane raffermo, pecorino, noce moscata e uova; e se i profani li staranno già sognando in brodo, saranno prontamente smentiti dai locals: cotti in acqua bollente leggermente salata, vanno asciugati e “incaciati” con un mix di parmigiano, pecorino e cannella, per poi essere serviti rigorosamente freddi, di frigo.
A scaldarvi ci penseranno i ravioli dolci appena fritti, il cui segreto è custodito dai “q.b.” tramandati dalle massaie di generazione in generazione: acerrime nemiche della bilancia, continuano a personalizzare il ripieno a base di castagne, cacao e caffè con cannella e liquore dosati a occhio, proteggendo così la loro individualissima versione dal rischio di contraffazione.
La torta magica spoletina
Nota a livello internazionale per il Festival dei Due Mondi, Spoleto merita di essere visitata anche in occasione del carnevale: terminata la tradizionale sfilata in maschera, fate in modo di assaggiare il dolce tipico di questa festa, la crescionda. La “crescia onta” di epoca medievale non era poi così peccaminosa come vorrebbe suggerire il nome: si trattava di una focaccia agrodolce preparata con uova, pangrattato, pecorino, brodo di gallina, buccia di limone e cioccolato fondente.
Oggi ne esistono ben tre varianti, ma nessuna di esse conserva il ricordo salato della progenitrice: rispetto alla crescionda di mele e a quella “poretta” (con la farina di mais), spicca per fama quella che è una torta magica a tutti gli effetti. Gli ingredienti principali – che da un unico impasto si traducono in tre strati durante la cottura – sono amaretti, cioccolato fondente e latte, ma non incaponitevi alla ricerca di una ricetta esatta, perché ogni pasticceria tiene in serbo i suoi segreti, anche se alla fine la più buona è sempre quella della nonna.
Il berlingozzo a Berlingaccio
«A Berlingaccio, chi ‘un ha ciccia ammazzi il gatto». Questo antico proverbio toscano è un’esortazione a mangiare a dismisura in quello che è l’ultimo giorno di carnevale – detto appunto “Berlingaccio” – in previsione dell’imminente periodo quaresimale. Il termine, di derivazione tedesca, oggi è usato non solo per indicare le abbuffate ma anche il ciarlare “di alta levatura” che ne consegue.
Il piatto tipico di questa festa non è però a base di carne, come saremmo portati a pensare leggendo il faceto motto popolare: si tratta di un ciambellone dai piacevoli sentori agrumati, perfetto per una colazione o una merenda leggera e adatto agli intolleranti al lattosio, dal momento che non contiene né latte né burro. Il berlingozzo – una volta sfornato – viene glassato con uno sciroppo al succo d’arancia e decorato con codette e confettini colorati, tanto per fare allegria.
Le trecce al miele ricamate da abili mani sarde
Lu carrasciali timpiesu è probabilmente il carnevale più famoso della Sardegna, con una tradizione plurisecolare rappresentata dalla maschera di re Giorgio (Gjolgju), spirito della terra fertile sacrificato sul rogo la sera del Martedì grasso a chiusura della kermesse carnascialesca: «Gjolgju meu! Gjolgju meu! Lu mé fiddòlu bonu ch’eri tu! Ohi! Ohi! Moltu è carrasciali! Carrasciali è moltu!»
Durante i sei giorni di festeggiamenti non potrete fare a meno di provare gli acciuleddi e meli: il nome di queste deliziose trecce fritte deriva dal gallurese “acciola” – ovvero “matassa” – e allude alla forma raffinatissima di questo dolce, realizzato con un impasto di semola mista a farina 00 e strutto. Dopo la frittura in olio di semi, questi gioielli dorati vengono tuffati nel miele aromatizzato con la scorza d’arancia. Se lo gradite, un bicchierino di mirto in accompagnamento non è da disdegnare.
I rigatoni al pitale offerti dai Nasi Rossi di Ronciglione
Sentite il suono del “campanone”? È Giovedì grasso ed è giunta l’ora di consegnare le chiavi della città a Re Carnevale per dare inizio a cinque giorni di pura follia: gli Ussari girano a cavallo per le vie del centro rievocando i tempi del dominio francese, i carri allegorici irriverenti e scherzosi sfilano al Grandioso Corso di Gala, e i Nasi Rossi si preparano alla “pitalata” del Lunedì.
Camicione bianco, berretto da notte e naso rosso sono i segni distintivi di questa maschera che incarna l’anima satirica e godereccia del ronciglionese, evidente nell’aneddoto che ha dato origine a questo simpatico rituale nell’anno 1900. Si narra che all’epoca due barbieri e due calzolai si ritrovarono a bagordare in osteria; il mattino seguente uno di loro, svegliatosi col naso rosso (di vino) si ricordò di aver scolato i rigatoni destinati alla cena nel “pitale” (vaso da notte), per poi gustarli con abbondante sugo di carne e pecorino… e per fortuna quella “scodella” improvvisata era pulita!
Ispirati da questa spassosa disavventura decisero di formare la “Società dei Nasi Rossi”, che ogni Lunedì di carnevale si impegnano a distribuire al popolo e ai forestieri gli appetitosi maccheroni serviti direttamente dal pitale, rincorrendo gli spettatori con i forchettoni sulle note del loro celebre inno al vino.
Questo buffo e dissacrante cerimoniale conclude il nostro viaggio nelle regioni centrali del Paese, in attesa del prelibato epilogo che vedrà protagonisti i costumi del Sud Italia.