La prima puntata del servizio, dedicata alle ricette tipiche del Nord, la trovate qui
Emilia-Romagna
Emilia Romagna fa rima con gnocco fritto, un tipico street food nel tempo diventato il cavallo di battaglia per numerose città della bassa Pianura Padana. Viene proposto con nomi diversi: torta fritta a Parma, chisolino a Piacenza, pinzino a Ferrara.
A Bologna diventa invece crescentina e si arricchisce di olio extravergine, lievito di birra e latte tiepido nell’impasto, mentre a Reggio Emilia si trasforma in chizza e viene farcito con il Parmigiano Reggiano.
Fritto nello strutto (o talvolta in olio bollente) fino a diventare gonfio e dorato, si gusta in abbinamento a taglieri di salumi e formaggi locali, come sostituto del pane, accompagnato da vini frizzanti e secchi.
Toscana
Tra Firenze e dintorni sono famosi i coccoli (detti anche sommommoli o cazzotti per la loro forma), palline di pasta di pane fritta in olio che, grazie a una perfetta proporzione tra gli ingredienti (farina bianca tipo 00, lievito di birra, sale, acqua), diventa dorata fuori ma resta morbidissima dentro. In passato erano un cibo da strada per tutte le ore, venduti nei caratteristici cartocci di carta gialla; oggi sono l’ideale per l’aperitivo e si trovano anche nel menù di alcuni ristoranti e osterie, che li servono accompagnati da formaggi, salse e affettati locali. In alternativa, con lo stesso impasto tirato al mattarello, si preparano le ficattole (a forma di rombo) e le donzelle (a forma triangolare o rettangolare), due varianti neutre che possono essere declinate in versione dolce o salata dopo la frittura.
In tutta la Valdarno, nel periodo di Carnevale, si trovano i cenci (o crogetti), la versione “con la gorgia” delle più famose chiacchiere, il cui nome in questo caso è dovuto al modo fiorentino di indicare gli stracci di stoffa.
Umbria
In Umbria la preparazione fritta più tipica e antica (risalente alla tradizione contadina fin dal XVII secolo) è quella dei brustenghi, una sorta di frittelle che possono assumere forme diverse e che, in origine, erano consumate nei giorni di festa, dolci o salati, come colazione o merenda. I perugini veraci (veri ideatori della ricetta) chiamano arvoltoli, mentre nell’area dell’orvietano prendono il nome di tortucce (ma anche poltricce, fregnacce o cresciole). Esistono sia salate, preparate con acqua, farina e sale, che si mangiano con salumi e formaggi, sia dolci.
Oggi si trovano solo sulle tavole più legate alla tradizione e nelle sagre paesane, ma vale la pena provarle. Come sempre non può mancare la variante carnevalesca del fritto dolce regionale, che in Umbria si traduce nei ficanassi, girandole di pasta fritta al sapore e profumo di agrumi e zucchero caramellato, e nelle frittelle di pancotto, preparate con pane raffermo e uvetta. Infine c’è la versione local delle castagnole, che a differenza di quelle classiche si preparano con un impasto meno compatto a cui viene tradizionalmente aggiunto un goccio di liquore all’anice.
Marche
Il fritto misto all’ascolana (che comprende anche le famose olive) è forse una delle ricette più conosciute e apprezzate dell’antica tradizione della zona del Piceno.
Sebbene sia un piatto ricco, presente sulle tavole nobili del Sette-Ottocento, si tratta comunque di una preparazione antispreco, nata dall’abilità dei cuochi nel riutilizzare gli avanzi dei pranzi, inclusa la crema pasticcera, che viene fatta rassodare, ritagliata, impanata, fritta e servita insieme a costolette di agnello, carciofi, zucchine e, ovviamente, le immancabili olive all’ascolana (rigorosamente della varietà Oliva Ascolana del Piceno DOP, che è verde, grande e naturalmente dolce).
Un dolce dalle idee più chiare (ma non del tutto!) sono le cresciole, frittelle preparate con gli avanzi di polenta, amalgamata con la farina e stesa fino a formare delle simil-piadine, che in frittura si gonfiano diventando croccanti e si servono cosparse di zucchero a velo. E a Carnevale? Stroccafusi, dolcetti tipici dell’entroterra che hanno al loro interno il mistrà o l’Anisetta, liquore tipico a base di anice.
Lazio
In questo caso c’è solo l’imbarazzo della scelta, perché di piatti fritti tra Roma e dintorni, ce n’è davvero per tutti i gusti e per tutte le stagioni. Il re indiscusso resta il supplì (dal francese surprise come le truppe napoleoniche descrissero questo antipasto nel 1874). Oggi è una crocchetta dalla forma leggermente allungata a base di riso cotto nel ragù di carne, con al centro un cubetto di mozzarella che deve diventare filante (se non fila non c’è “telefono”!), presente in tutti i menù della Città Eterna, classico o in versioni gourmet (cacio e pepe, all’amatriciana, o alla gricia e così via). Ma pochi sanno che la ricetta originale non prevedeva l’uso di pomodoro né della panatura ma includeva solo riso legato con l’uovo e un ripieno di rigaglie (interiora di pollo) e scarti di animelle. Il cuore di mozzarella arrivà solo in un secondo momento, nel Novecento, proprio come l’invenzione di Meucci che si spera di trovare ogni volta che si apre questo scrigno goloso.
Abruzzo
Pecorino e uova sono due degli ingredienti più ricorrenti nella cucina abruzzese, quindi non potevano mancare nemmeno come protagonisti di uno dei fritti più tradizionali della regione: appunto le pallotte cac’e ove, polpette di pane raffermo, uova e avanzi di formaggio (soprattutto pecorino), fritte e saltate in un sugo di pomodoro e basilico. Che siano grandi o piccole, servite come secondo o antipasto finger food, sono un piatto legato alla transumanza e alla cucina povera contadina, nato dalla necessità di sopperire alla scarsa disponibilità di carne con un’alternativa altrettanto soddisfacente, tanto da essere adatto anche ai giorni di festa. Infatti veniva tradizionalmente preparato per il Martedì Grasso e l’11 novembre, per festeggiare San Martino e il vino nuovo.
Passando al dolce, dalla friggitrice abruzzese escono le cicerchiate, palline dorate inserite nell’elenco dei prodotti italiani agro alimentari tradizionali a marchio PAT che si servono cosparse di miele bollente e decorate con mandorle o sprinkles colorati; gli sgaiozzi della provincia di Pescara, a base di farina di mais, semplici o con l’aggiunta di uvetta o semi di anice all’impasto; i torcinelli dolcetti dalla forma allungata e attorcigliata composti principalmente da patate, e i caggionetti (o cauciunitti), ravioli a forma di mezzaluna, con un ripieno a base di ceci o castagne lessati, mandorle e cacao, che vengono fritti e serviti caldi, spolverizzati con un po’ di zucchero e velo.
Un tempo questi dolci, calorici e sostanziosi, erano preparati quotidianamente come merenda energizzante per chi lavorava in campagna, mentre oggi sono riservati quasi esclusivamente al periodo natalizio e al Carnevale.
Molise
Per quanto piccolo, il Molise ha una tradizione culinaria di tutto rispetto, che non ha nulla da invidiare alle altre regioni. E i fritti non fanno eccezione: i caggiuni (o calcioni) sono la variante locale dei classici calzoni fritti e si servono ben caldi come antipasto, con una farcitura a base di prodotti della pastorizia e dell’agricoltura (per esempio il classico prosciutto e provola).
Le scarpelle invece sono frittelle a marchio PAT, tipiche delle feste natalizie, che si ricavano da una pastella e si possono servire dolci, semplicemente cosparse con zucchero semolato, oppure salate, come stuzzichino, antipasto o secondo piatto, soprattutto se si aggiungono nella pastella pezzi di baccalà, filetti di alici o ciuffi di cavolfiore sbollentati.
Sul fronte pasticceria spiccano le rosacatarre (o rosachitarre), dolcetti a forma di rosa, diffusi soprattutto a Larino e nella provincia di Campobasso, che assomigliano alle cartellate pugliesi, con la differenza che una volta cotte vengono irrorate di miele caldo e non di vincotto.