I frutti degli agrumi non sono come gli altri. Se gli interessi di chi li studia non si limitano ai saperi ristretti di una specifica scienza botanica o agronomica, i sistemi agricoli che li producono non possono non considerare anche quelli ecologici e umanistici. Gli agrumi formano paesaggi culturali complessi che riguardano gli ecosistemi e il sapere umano che interagisce con essi e raggiungono armonie – tra valori estetici, ecologici ed economici – ad altri sconosciuti.
Gli alberi di arance e limoni sono in relazione con le altre piante, gli animali, i giardinieri, gli agricoltori, i commercianti, gli industriali e i consumatori. La storia li ha tratti dal selvatico, li ha modificati e selezionati per piantarli in un vaso, lungo strade o piazze, in un giardino ornamentale, una campagna produttiva. I loro frutti arrivano ai mercati, alle tavole, alle industrie alimentari.
Accompagnano la nostra vita, anche trovando posto in memorie e sentimenti sollecitati da apparenze, profumi e sapori che nessun altro genere fruttifero presenta così numerosi e differenziati. Li incontriamo nei romanzi, nelle poesie e canzoni, nelle pitture, nella fotografia d’autore, nel teatro e nei film, anche nella musica. […]
Erano i tempi dei primi successi dell’agricoltura biologica. Si studiava come ridurre i consumi di acqua, sostituire ai fertilizzanti della chimica di sintesi quelli organici, ai pesticidi della «primavera silenziosa» la lotta biologica con gli insetti utili e gli uccelli che si nutrivano di quelli dannosi. Per questo era necessario conoscere le agrumicolture tradizionali, quelle che non avevano, per scelta o necessità, adottato le tecniche intensive basate sull’energia fossile e sulla chimica industriale ma si fondavano sugli equilibri ecosistemici, sulle risorse che questi garantivano, su quella che adesso è chiamata circolarità.
Nuovi interessi e contatti mi portarono a conoscere agricoltori e ricercatori di altri paesi. Avevo letto Fernand Braudel ed ebbi evidenza che lungo le coste del Mediterraneo «fioriscono gli aranci e la civiltà». Quelli che altrove si dicono frutteti (nello specifico, agrumeti) sono chiamati giardini, luoghi dove, in uno spazio protetto perché prezioso ma aperto alle interazioni, il meglio della natura incontra il meglio della cultura.
Dove specie che arrivano da lontano partecipano con la natura locale che la coltura rende ospitale (garantendo biodiversità, fornendo acqua, riparando dal freddo), dove l’utilità economica si correla con quella ambientale, con la bellezza e il piacere, dove il materiale incontra l’immateriale. Nella cultura e nella storia, nelle parole dei poeti arabi e normanni, in quelli rinascimentali e barocchi e nei resoconti dei viaggiatori del Grand Tour, gli agrumeti non sono solo chiamati giardini, ma vanno oltre e sono definiti «paradisi».
La coltura degli agrumi, oltre i piccoli spazi dove si esibiscono come piante d’ornamento, va oggi intesa in termini multifunzionali. Il mercato è vastissimo ed è coperto praticamente da tutti i paesi della fascia tropicale e subtropicale che, con bonifiche imponenti (terrazzando montagne, prosciugando paludi, irrigando deserti) li coltivano con costi inferiori a quelli degli antichi paesi produttori e, spesso, superiori capacità mercantili.
Molte aree produttive mediterranee che hanno basato su di essi non solo le economie, ma anche gli equilibri ambientali e culturali in paesaggi resi fiorenti dall’incontro tra natura e storia, vivono ricorrenti momenti di crisi e fenomeni di abbandono che semplificano e cancellano irripetibili momenti colturali e culturali. Il loro futuro può affidarsi solo al riconoscimento della multifunzionalità o, come oggi anche si dice, dei servizi ecosistemici.
È il paesaggio – insieme di storia, natura e percezione – che va salvato. Una volta lo si definiva «volto amato della patria» e tale rimane a condizione di perseguire le ragioni che lo formano e le funzioni che lo sostengono. Perché questo avvenga serve cogliere tutte le occasioni possibili: le produttive (sono giardini sì, ma a partire dalla capacità di soddisfare i mercati), le ambientali e le culturali.
Si può farlo attraverso uno sguardo complesso, multidisciplinare, l’attenzione ai saperi locali e al contributo (sono alberi esotici che hanno impiegato migliaia di anni e di chilometri per divenire parte dei nostri paesaggi) delle civiltà, dall’Asia al Mediterraneo di cui gli agrumi hanno fatto parte.
Conoscerli, valorizzare i prodotti, la bellezza dei giardini, le armonie sistemiche delle campagne diventa più facile se la loro natura e storia diventa nota e conosciuta: dall’arrivo dalle foreste tropicali cinesi e indiane, ai viaggi avventurosi verso il Mediterraneo, ai miti che li hanno accompagnati, agli affreschi di Pompei, le nature morte, le serre e i giardini rinascimentali, la letteratura, i benefici apportati alla salute, le tecniche di coltivazione, il successo economico e industriale.
Tutto il sapere del mondo che li ha accompagnati nel loro percorso – dal giardino dove Eracle li ha sottratti al controllo degli dèi al primo posto nelle attuali statistiche agricole – va reso disponibile. Racconta non solo di giardini illustri, campagne fiorenti, viaggi in terre lontane, ma anche di angoli di terra riparata in un cortile, di terrazze con piccole piante in vaso come quella a cui Antonio Gramsci, in confino ad Ustica, non smetteva di pensare, chiudendo così una lettera alla cognata Tania, nel gennaio del 1927: «mandami notizie sulla pianticella di limone: è cresciuta? Quanto è alta ormai? È vitale? Volevo scrivertene, ma poi ho trascurato, per non parere troppo… infantile».
Si avvale di osservazioni, sentimenti, memorie di chi li vive, li studia, li percorre, ne scrive o li ritrae, li immagina o li coltiva, racconta dei miti passati, delle storie che non invecchiano, dei futuri che si preparano.
Da “Agrumi. Una storia del mondo” di Giuseppe Barbera, Il Saggiatore, 288 pagine, 25 euro.