«L’attività della mia Guardia costiera è stata fortunata. Salvavamo centinaia di migliaia di vite umane e nonostante il grandissimo lavoro e lo sforzo immane, per tutti noi era un vanto, un orgoglio portare a terra ogni persona. E soprattutto ti arrivava il riconoscimento, la stima di un Paese intero, persino l’invidia. Ed è stato per tutta Italia un grande arricchimento poter dire: se hai salvato una vita, hai salvato il mondo».
Mentre la Guardia Costiera è nell’occhio del ciclone per il mancato salvataggio del barcone di Cutro, l’ammiraglio Vittorio Alessandro, ex portavoce del Comando generale delle Capitanerie di porto, oggi in pensione, ricorda in un’intervista a Repubblica cosa è stata, fino a qualche anno fa, l’attività della Guardia costiera in Italia e la sua percezione nell’opinione pubblica.
Poi al governo sono arrivati i gialloverdi del governo Conte Uno, con Matteo Salvini e Luigi Di Maio. E tutto è cambiato.
«È cambiato che a un certo punto le nostre motovedette sono diventate i “taxi del mare”, i nostri uomini da eroi sono diventati la cinghia di trasmissione, le nostre navi, come la Diciotti e la Gregoretti, che avevano fatto niente più che il loro dovere salvando i migranti in pericolo, sono state lasciate fuori dai porti italiani», racconta l’ammiraglio.
Con il governo Conte Uno, prosegue, «è cambiato il clima politico, ma sono cambiate anche le regole d’ingaggio ed è cambiata l’immagine stessa del Corpo», spiega. «Noi abbiamo potuto raccontare la nostra attività, noi portavamo i giornalisti sulle motovedette, per mostrare a loro e a tutto il mondo cosa significava salvare vite in mare. Non è cosa facile avere a che fare con il mare, ogni soccorso è una storia a sé, impari e immagazzini un capitale culturale che abbiamo potuto trasferire ai nostri giovani. Poi, improvvisamente, l’attività di salvataggio dei migranti è persino scomparsa dalle foto dei calendari del Corpo».
Prosegue: «I limiti dell’azione della Guardia costiera sono sempre stati quelli della zona Sar, ma centinaia di volte ci siamo spinti fuori e nessuno si sognava di bacchettarci. Soprattutto se andavi in soccorso di un’imbarcazione che navigava in direzione delle acque italiane: andavamo a prevenire il rischio ad ampio raggio. E diciamo che non dovevamo rendere conto a nessuno».
Poi, con il governo Conte, l’operatività è stata di fatto ridotta, finendo sotto il controllo del ministero dell’Interno. «Diciamo che qualche decreto interministeriale ha in qualche modo imbrigliato l’attività», dice Alessandro. «Tutto si muove su un piano non normativo e la Guardia costiera, che prima si spingeva molto al di là delle acque territoriali, è stata in qualche modo ritirata. Il Viminale ha assunto un ruolo strategico nell’assegnazione del porto di sbarco. E se è vero che il soccorso in sé non rientra nelle prerogative del ministero dell’Interno, è anche vero che – se l’asse si sposta indietro – c’è il rischio che non si veda l’esigenza del soccorso e resti in primo piano un’esigenza di polizia».
È questo, secondo l’ammiraglio, il problema attorno a cui è maturata la tragedia di Cutro. «Ce lo diranno le indagini, ma è del tutto evidente che, se l’Mrcc avesse percepito la priorità di dichiarare un evento di ricerca e soccorso anche a 40 miglia, avrebbe potuto mandare le nostre motovedette. E invece si è fatta un’operazione di polizia. Ma in mare non si fa polizia: in mare si fa soccorso», conclude.