Qui NashvilleIl selvaggio West degli addii al nubilato

Il fotografo Diego Mayon ha realizzato un reportage delle feste pazze che si svolgono nella capitale dello Stato del Tennessee. Linkiesta Eccetera vi porta per le sue strade, tra damigelle in tutine rosa confetto, neon multicolor e cow-girl alla ricerca dell’ultimo party

Ph. Diego Mayon

Se è vero che gli addii al nubilato (e al celibato) fanno sempre un’impressione un po’ triste – vedere qualcuno che cerca di svuotare il mare del mai più con il cucchiaino di un weekend – va detto che a Nashville le ragazze usano quantomeno il badile. Dal Midwest, dalla California, dal New England, perfino dalle Hawaii: a pochi mesi dall’altare si riversano in un’ex sonnacchiosa cittadina universitaria, famosa per essere la capitale della musica country, che negli ultimi anni si è invece guadagnata il soprannome di Nash Vegas. Lungo Broadway, il corso principale di downtown, il ticchettio di camperos – più rotondo e bonario di quello dei tacchi a spillo – è costante, dalla mattinata all’alba successiva. 

Le insegne elettriche degli Honky-tonk, cioè bar con musica dal vivo, sembrano capaci di attirare i moscerini di tutto il Tennessee. Visto da una delle terrazze dei locali, il via vai di cappelli da cow-boy – che insieme ai camperos compongono il necessaire d’ordinanza – è degno di un saloon da epopea della Frontiera nell’ora della rissa. L’alcol dà prova di tutta la propria odorosa volatilità e l’orizzonte quasi riverbera come attorno alle pompe di benzina. Addirittura in un negozio di abiti da sposa come Adorn le sposande, con le loro cinque o sei amiche, a cinque o sei mesi dalle nozze, continuano a bere champagne, offerto dalle commesse, mentre si provano sulla pedana di fronte a un grande specchio i vestiti da cerimonia: per lo più nude e body-suite (in sostanza: attillati e/o semitrasparenti). Sarebbe ingiusto nei confronti del lettore non sforzarsi di riprodurre la stessa sensazione di ininterrotto delirio che si prova qui, dove tutto si confonde in un brodo rosa-confetto talmente kitsch da risultare sublime, come il gorgonzola è talmente puzzolente da risultare delizioso.  

Festeggiano sempre in movimento, queste sposande, e ripercorrono sempre le stesse strade di downtown, e lo stesso tratto del fiume Cumberland, su scafo o su ruota, quasi sfogando il loro desiderio di scappare altrove, il più possibile lontano dall’altare, con la stessa autoillusione peripatetica che devono provare le formiche in un barattolo. Marciano bar a pedali, con sei ragazze e sei boccali di birra da un lato e sei più sei dall’altro, di traverso rispetto a chi traccia col manubrio scarabocchi sull’asfalto, la spillatrice tronfia e panciuta nel centro. Furgoni sulle cui fiancate si leggono nomi apocalittici, come “The Ultimate Party” o “Hell on Wheels”, e sotto la cui pensilina le addionubilanti più che ballare secondo movimenti volontari sembrano scosse dalle onde sonore delle casse. Quando si fermano al semaforo le ragazze concedono agli occhi del Sud i tesori che di lì a poco saranno riservati soltanto al maritino: detto in altri termini, si tirano su la t-shirt per mostrare le tette. I trattori dei redneck che a volte sconfinano nelle strade incivilite dall’asfalto subiscono arrembaggi e selfie coatti con il conducente, la cui comprensione sembra arrivare sempre in ritardo rispetto allo starnazzante precipitare degli eventi. Orecchie da coniglio luminose, palloncini color bubble-gum, coroncine di strass che formano la scritta “Bride Tribe”, gruppi con combinazioni policrome di parrucche alla Sailor Moon.

Donne tigrate, leopardate, zebrate, qualsiasi participio passato zoologico qui trova un habitat protetto. Dentro i locali le spose e le loro amiche barcollano sotto le gigantografie di barbuti cantanti country in cui uno sguardo paranoico potrebbe scorgere la scintilla di un giudizio patriarcale e in cui uno sguardo ancor più malizioso potrebbe scorgere la pretesa dello ius primae noctis. I cessi sono naturalmente divisi in “cow-boy e “cow-girl”, gli sgabelli riproducono posteriori scosciati di ragazze sexy da prateria, per azionare le slot machine bisogna, a proprio rischio e pericolo, abbassare la canna di un pistolero ghignante. Una ragazza col velo di carta velina balla con un signore dai mustacchi brizzolati; se l’è scelto saggio? No, è suo padre, Frank, che l’accompagnerà all’altare e che spiega: «It’s a looooong, dirty way to the altar». Per l’occasione un’altra ragazza, Caroline, si è tatuata il proprio nome sul braccio destro (per essere scrupolosi il tatuaggio per esteso recita cripticamente “Caroline Bride & Rides”); il guaio è che il tatuatore si è scordato la terzultima lettera del suo nome, e così, tra la “l” e la “n”, ha aggiunto una piccola “v” che regge la “i”, come nella correzione di un tema scolastico – un’amica di Caroline, per solidarietà, si è tatuata sulla spalla sinistra lo stesso refuso. Spose di 18 anni, 30 anni, 60 anni, spose incinte spaparanzate sugli sgabelli con top e ombelico estroflesso. 

Un ragazzo gira per l’ultimo piano di un locale, dove rimbomba musica da discoteca, e mostra lo schermo del cellulare che tiene appiccicato alla fronte: vi si legge, in maiuscolo, bianco su nero, “Cocaine” (era dai tempi di quel nano che in Pulp Fiction girava per il ristorante urlando “Chiedete tutti le Phiiiiiliiip Mooorriiiiiis” che non si vedeva un marketing per le sostanze tanto aggressivo). Spesso ci si ritrova immersi in una cappa d’erba, quasi mai in una di odiatissimo tabacco, perché qui la marijuana viene percepita come salutare, come un’insalata allo stato gassoso, una sublimazione d’avocado. La vendono dei baracchini lungo Broadway, l’erba, l’insegna verde dice “dispensary”, e sulle bustine di marijuana, sulle tavolette di cioccolato corretto e sui tubetti di plastica che contengono canne pure già rollate si legge “Premium Delta thc” e “Gelato”. In fila davanti al dispensary, bachelorette e famiglie. Bambine di dieci anni a braccetto con i genitori, scalze sull’asfalto, i primi mezzi tacchi in mano. Un truce figuro mostra un serpente costrittore giallo ocra alle passanti che smaniano assecondando una metafora fin troppo scontata. Magliette personalizzate per ogni singola partecipante all’addio. Prendiamo come esempio un gruppo tra tanti. L’intestazione è sempre la stessa, “I’m bringing” (nel senso di “il mio contributo allo sbadilamento è”), poi seguono rispettivamente:

The bad decisions.
The sarcasm.
The bail money.
The big boobs.
The consciousness.

E quest’ultimo dono delle remage qui pare avere la stessa utilità della mirra.