Ritorno al futuroPerché la riforma del Patto di stabilità conviene all’Italia

Le nuove regole di governance europea sono più semplici e consentono agli Stati membri di definire un percorso di aggiustamento pluriennale. «Il nostro Paese partecipa al dibattito con proposte costruttive e un approccio realistico», dice il ministro dell’Economia Giorgetti all’evento di Intesa Sanpaolo a Milano

Il ministro Giorgetti con il commissario europeo al Bilancio Gentiloni
Foto: Ecofin

La frugalità non ha funzionato. Invocare le vecchie regole, perché tanto le sanzioni non venivano applicate, è una postura miope. La riforma della governance europea è migliorabile, ma a partire dalla proposta della Commissione che va verso la flessibilità e soprattutto la gradualità. «C’è oggi la consapevolezza – ha detto Jacques Moscianese, executive director di Intesa Sanpaolo, all’evento organizzato dal Gruppo a Milano – che misure di austerità troppo severe non solo provochino fortissime tensioni sociali, ma alla fine non migliorino la sostenibilità del debito. Questa consapevolezza non c’era nel 2011/12!»

Dopo quella stagione, Bruxelles deve ricostruire la fiducia. Quella tra gli Stati membri e i loro governi, ma anche quella con l’opinione pubblica. Lo spiega chiaramente Marco Buti, capo di gabinetto del Commissario Paolo Gentiloni, mentre illustra il nuovo corso europeo. «Abbiamo regole obiettivamente molto complesse e che sono diventate sempre meno trasparenti. A parte qualche aficionado a Bruxelles, è molto difficile che si capisca come funzionano», dice.

Non è un caso, secondo l’ex direttore generale per gli Affari Economici e Finanziari della Commissione. A suo avviso, si era cercato di «algoritmizzare» le norme, per ridurre la discrezionalità. «Visto come qualcosa che plana da Bruxelles sulle diverse capitali, il risultato è una applicazione non rigorosa delle regole», rimarca Buti. Da qui una proposta pensata per aumentare il protagonismo dei Paesi: resta il paletto del deficit che non deve superare il tre per cento del Pil, ma saranno gli esecutivi nazionali a proporre alla Commissione dei piani fiscali strutturali. Si espande anche la finestra temporale: quattro anni, estendibili a sette.

«Si eliminano una serie di indicatori che ci hanno un po’ perseguitati negli ultimi anni, ci si focalizza su un parametro più sotto controllo per le autorità di politica economica». Andranno in pensione la famigerata «matrice», cioè l’aggiustamento medio annuale dello 0,5 per cento, e l’«un ventesimo» (1/20), l’obbligo per gli Stati (come l’Italia) dove il debito varcava il sessanta per cento del Pil, di ridurlo a un ritmo pari a quella frazione. «Si passa da sorta di ordigno nucleare, sanzioni troppo grandi perché siano applicate, ad altre simboliche, di tipo più reputazionale». A chi non rispetta le raccomandazioni, aggiunge Buti, potranno venire congelati i fondi comunitari.

Perché questo assetto conviene al nostro Paese? Risponde il capo di gabinetto di Gentiloni: per la fattibilità politica e un «gradualismo» nella discesa del debito, con l’«abbandono di regole numeriche rigide e uguali per tutti». La programmazione pluriennale premierà poi la qualità degli investimenti, per la transizione ecologica e quella digitale. «La proposta rappresenta sicuramente punto di partenza – dice il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti –, non di arrivo nella riforma della governance europea. L’Italia partecipa al dibattito con proposte di tipo costruttivo e un approccio realistico».

L’intervento di Marco Buti, capo di gabinetto del commissario per l’Economia Paolo Gentiloni
L’intervento di Marco Buti, capo di gabinetto del commissario per l’Economia Paolo Gentiloni (foto Linkiesta)

Arrivando in via Romagnosi, Giorgetti ha parlato di «situazione in Europa sotto controllo» dopo i casi di Svb e di Credit Suisse. In riferimento al secondo, ha detto il ministro, «riteniamo che le ripercussioni per il sistema bancario italiano siano sostanzialmente insignificanti». Sul patto di stabilità, il capo del Mef ha rispolverato una metafora calcistica: i discorsi teorici somigliano a quelli dell’allenatore negli spogliatoi prima della partita, poi si scende in campo «e dipende dall’avversario, talvolta anche dall’arbitro». La posizione di Roma rimane però costruttiva.

L’Ecofin non ha trovato l’intesa sulla «fiscal guidance», cioè sull’introduzione delle nuove regole già dall’anno prossimo «come proposto dalla Commissione un po’ surrettiziamente», commenta il ministro. «Sebbene non sia contestabile che gli Stati con più elevato rapporto debito-Pil debbano seguire percorso di aggiustamento più ambizioso, questo non dovrebbe risolversi in un aumento del differenziale», conclude Giorgetti.

L’Italia immagina infine un rafforzamento del quadro europeo sugli strumenti fiscali per favorire il coinvolgimento di capitali privati e stimoli agli investimenti. «Vorrei sottolineare quanto sia importante la dimensione delle garanzie per i progetti del Pnrr, che danno impulso alla domanda pubblica in presenza di un’offerta fragile. Come ebbi a dire a Cernobbio, oggi serve una politica economica dell’offerta».

Nel corso del panel al centro congressi di Fondazione Cariplo, Carlo Altomonte, professore di Politica economica europea alla Bocconi, evidenza la necessità di «presentarsi a Bruxelles con un’idea coerente». Anche Massimo Bordignon, docente alla Cattolica e membro dell’European Fiscal Board, ritiene che «un atteggiamento furbesco rischia di svantaggiarci». Veronica De Romanis, professoressa di European Economics alla Luiss, ammonisce invece sulle «implicazioni politiche, oltre a quelle tecniche». A suo avviso, «il pericolo di sentimenti anti-europei è enorme, il processo democratico è quasi più importante di come dovremmo ridurre il deficit».

«Ricordiamoci che i mercati finanziari operano secondo linee orizzontali e verticali – replica Buti –, credo sia meglio affidarsi alla Commissione che ai mercati». Come ha detto Moscianese aprendo i lavori, «dobbiamo proseguire in questa direzione, affrontando le sfide che l’attuale nuovo contesto geopolitico ed economico pone all’Unione Europea, per poter competere in un contesto internazionale senza essere in una posizione di svantaggio (con potenze come Stati Uniti e Cina). Dobbiamo pensare all’Europa come a un’unica economia in grado di valorizzare le potenzialità di ciascun Paese».