Normalizzazione forzataLa Cina usa la strategia dell’anaconda per accerchiare di Taiwan

Pechino ha bisogno di almeno dieci anni per potenziare la flotta per aggredire l’isola e sostenere un blocco totale e prolungato. Nel frattempo, proverà a rendere lo Stretto di Taiwan un mare interno, utilizzando metodi anche nuovi per rivendicare la propria sovranità

LaPresse

Due mesi e due giorni. 29 novembre 1948 e 31 gennaio 1949. L’Esercito popolare di liberazione circonda Pechino, dopo aver preso Tianjin. All’interno le forze del Kuomintang. Un lento accerchiamento, fatto di poco sangue e paziente attesa. Passano le settimane. E alla fine i comandanti nazionalisti escono dalle mura di quella che sarebbe diventata la capitale della nuova Repubblica Popolare Cinese. Si arrendono e la città viene liberata in modo pacifico.

Di lì a qualche mese, il Partito comunista si muove sempre più verso sud. Alla fine, il Kuomintang di Chiang Kai-shek è costretto a ripiegare sulle isole Penghu e Taiwan, lasciandosi dietro degli avamposti militari a Kinmen e Matsu. Nascono le “due Cine”, etichetta piuttosto antiquata che ancora oggi viene talvolta apposta alla vicenda che coinvolge Pechino e Taipei, che nel frattempo ha progressivamente cambiato pelle.

Non viene invece considerato antiquato quello che viene definito il “modello Pechino”, quantomeno da diversi studiosi della Cina continentale. Tra di loro c’è Li Fei dell’Istituto di ricerca su Taiwan dell’Università di Xiamen, metropoli del Fujian affacciata direttamente sulle due isole di Kinmen, amministrate da Taipei ma mai occupate dai giapponesi a differenza dell’isola di Taiwan e le Penghu. Tra Xiamen e la manifestazione più concreta di ciò che resta della Repubblica di Cina ci sono in mezzo solo 5 chilometri, 2 nel punto più vicino. Non esiste uno Stretto. Da qui il professor Li immagina la possibile riproposizione del “modello Pechino” su Taiwan, per raggiungere quella che viene definita «riunificazione intelligente». Tale approccio deve essere portato avanti passo dopo passo e «la normalizzazione delle esercitazioni militari intorno all’isola è un passo avanti».

Ecco, normalizzazione. Questo è il fenomeno che maggiormente preoccupa Taipei, ancor più delle grandi manovre che rispondono anche a esigenze di politica interna ed esterna. La manovra di avvicinamento all’isola principale di Taiwan è cominciata già da qualche anno e prosegue in maniera progressiva ma costante, secondo quella che l’ammiraglio della marina taiwanese in pensione Chen Yeong-kang definisce «strategia dell’anaconda». Un lento «stritolamento del centro di gravità» di Taiwan attraverso azioni militari e l’estensione della cosiddetta area grigia, erodendo piano piano lo spazio di manovra di Taipei.

Le esercitazioni di questi giorni rappresentano un passo in questa direzione, anche se meno evidente e fragoroso di quello dello scorso agosto, compiuto dopo la visita a Taipei di Nancy Pelosi. Nel 2019 sono cominciate ad aumentare le manovre militari all’interno dello spazio di identificazione di difesa aerea taiwanese, che non corrisponde allo spazio aereo e in parte si sovrappone a quello della Repubblica Popolare. Ma dalla scorsa estate jet e navi hanno di fatto cancellato la cosiddetta linea mediana, confine non ufficiale e non riconosciuto sullo Stretto ma ampiamente rispettato sino ad allora. Il cambiamento fin qui più visibile allo status quo.

A inizio 2023 il ritmo delle operazioni si era drasticamente ridotto, in attesa di una nuova sorgente di tensioni. Puntualmente arrivata con il doppio scalo negli Stati Uniti della presidente Tsai Ing-wen e, soprattutto, l’incontro in California con lo speaker Kevin McCarthy, l’ufficiale più alto in grado mai incontrato da un leader taiwanese su territorio statunitense dal 1979. Cioè da quando Washington ha tagliato i rapporti diplomatici ufficiali con Taipei intraprendendo quelli con Pechino. Le nuove esercitazioni dei giorni scorsi hanno avuto minore durata, estensione e impatto su vita civile e opinione pubblica rispetto a quelle di agosto 2022: niente interruzioni di voli, nessun problema per la navigazione commerciale, nessun lancio di missili. Elemento importante anche a livello psicologico per la popolazione taiwanese, che la scorsa estate aveva discusso parecchio sul mancato allarme del proprio governo sul sorvolo dei missili Dongfeng.

Eppure, Pechino ha compiuto altri passi significativi a livello qualitativo. In particolare, ha utilizzato la portaerei Shandong, che per la prima volta ha operato nel Pacifico orientale oltrepassando lo stretto di Bashi che separa il sud di Taiwan dal nord dell’arcipelago delle Filippine. Da lì è stata usata come trampolino di lancio per oltre un centinaio di voli di jet di varia tipologia dal largo della costa orientale di Taiwan. Una mossa dall’elevato tasso strategico, visto che in caso di blocco navale o conflitto solo da lì potrebbero arrivare aiuti all’isola, che rispetto all’Ucraina è molto più difficile da attaccare ma anche quasi impossibile da rifornire.

Il messaggio all’esterno, in primis a Stati Uniti e Giappone, è chiaro: non vi lasceremo intervenire. Per farlo, la Cina ha bisogno di potenziare ulteriormente la flotta. Al momento non sarebbe in grado di sostenere un blocco totale e prolungato dell’isola principale di Taiwan. Ma conta di poterlo fare entro l’inizio del prossimo decennio. Nel frattempo, proverà a rendere sempre di più lo Stretto di Taiwan una sorta di mare interno, utilizzando metodi anche nuovi per rivendicare la propria sovranità sulle sue acque e i suoi cieli. Significativo che nei giorni scorsi, mentre a est si svolgevano le manovre con la Shandong, la costa occidentale sia rimasta sostanzialmente sgombra. Sullo Stretto è stata invece lanciata un’operazione di pattugliamento speciale della guardia costiera, messaggio di un tentativo di regionalizzazione delle prassi operative che può avere un impatto ancora più concreto sullo stato dell’arte rispetto alle esercitazioni a favore di camera e titoli di giornale.

Xi Jinping ha comunque dosato con attenzione il mix delle ultime esercitazioni. Dopo l’incontro fra Tsai e McCarthy era sostanzialmente costretto a una risposta muscolare. Con una reazione sì aggressiva ma non troppo ha provato a offuscare più del dovuto le recenti iniziative diplomatiche tra Europa e Medio Oriente, favorito anche dalla visita di Emmanuel Macron e dalle controverse dichiarazioni del presidente francese sulla strada del ritorno per Parigi. Proprio mentre venivano avviate le esercitazioni. Ma sui calcoli di Xi ha inciso anche lo scenario politico taiwanese, con le elezioni presidenziali in calendario per il 2024. Incontrando McCarthy in California e rinviandone il passaggio da Taipei, Tsai sembra aver fatto un passo di parziale compromesso per provare a evitare un’escalation. Una reazione esagerata avrebbe mandato il messaggio al Partito progressista democratico (DPP) della presidente che è inutile provare a ridurre i rischi.

Nonostante questo, il candidato appena ufficializzato del DPP alle prossime presidenziali è ritenuto ben più radicale di Tsai. Si tratta dell’attuale vicepresidente Lai Ching-te. Se Tsai ritiene che Taiwan non abbia bisogno di una dichiarazione d’indipendenza perché già de facto indipendente come Repubblica di Cina (pur ritenendola un’entità non interdipendente con la Repubblica Popolare, da qui l’incomunicabilità col Partito comunista), Lai si è in passato espresso a favore dell’indipendenza formale come Repubblica di Taiwan. Salvo poi rivedere le sue posizioni una volta che è stata evitata la scissione del DPP nel 2019 e lui è diventato vicepresidente. Ma Pechino lo vede come una figura potenzialmente rischiosa e imprevedibile.

Non a caso l’opposizione del Kuomintang (KMT) sembra voler basare la sua linea elettorale sulla scelta tra guerra e pace, quantomeno vedendo le dichiarazioni in tal senso dell’ex presidente Ma Ying-jeou, appena tornato da uno storico viaggio in Cina continentale.

Anche gli Stati Uniti non vogliono farsi trovare impreparati agli scenari post elettorali a Taiwan. La Casa Bianca e soprattutto il Congresso hanno dato diversi segnali di volontà di aumentare il sostegno a Taipei, che però continua a lamentare ritardi nelle consegne di armi già acquistate e il mancato trasferimento tecnologico nel settore della difesa. Nel frattempo, Washington sta provando a estendere la sua rete di cooperazione militare nell’Asia-Pacifico. Nei giorni scorsi, subito dopo la conclusione delle esercitazioni militari cinesi sono cominciate quelle congiunte tra Stati Uniti e Filippine, che di recente con Ferdinand Marcos Junior si sono nettamente riavvicinate verso il loro ex colonizzatore.

Le Balikatan (letteralmente «spalla a spalle») sono le più vaste di sempre tra i due paesi, con la partecipazione fino al 28 aprile di 17.600 persone di cui circa 12 mila militari americani. Prevista anche un’esercitazione per far esplodere una finta nave da guerra nel mar Cinese meridionale: una mossa che potrebbe suscitare l’ira della Cina. A febbraio, Washington ha concluso un nuovo accordo di difesa con Manila che prevede l’installazione di quattro nuove basi navali su isole filippine vicine ad acque contese. Tre di queste basi si trovano a nord dell’isola di Luzon, la terraferma più vicina a Taiwan oltre alla Cina continentale. E nei mesi scorsi la vicepresidente Kamala Harris è stata in visita a Palawan, la provincia limitrofa alle acque contese tra Pechino e Manila.

Gli Stati Uniti lavorano anche sul Vietnam. Venerdì 14 aprile è arrivato ad Hanoi il segretario di Stato Antony Blinken, per posare la prima pietra di quella che diventerà la nuova mega ambasciata statunitense nella capitale del paese del Sud-Est asiatico. A luglio è prevista una storica elevazione dei rapporti bilaterali, mentre non è più un segreto che Joe Biden abbia invitato a Washington Nguyen Phu Trong, il segretario generale del Partito comunista vietnamita. Mossa inusuale, visto che di solito si parla con il presidente, massima carica statale anche se nel sistema vietnamita meno rilevante del capo del Partito. Nelle scorse settimane una nave statunitense era transitata per le isole Paracelso, contese tra Vietnam e Cina, proprio mentre Lockheed Martin e Boeing si trovavano con altre aziende americane nel paese del Sud-Est asiatico per negoziare la vendita di droni ed elicotteri.

Ci sono poi i due storici alleati dell’Asia orientale. Stati Uniti e Giappone hanno già rafforzato i rapporti militari dopo il viaggio del premier Fumio Kishida a Washington, lo scorso gennaio. La Corea del Sud dovrebbe seguire in occasione della visita di Stato del presidente Yoon Suk-yeol alla Casa Bianca, prevista per il 26 aprile. La vicenda dei documenti top secret del Pentagono ha però gettato qualche ombra sull’appuntamento, visto che tra i file ce ne sono alcuni che rivelano un presunto spionaggio ai danni di alti funzionari sudcoreani. Il governo ha smentito e ha parlato di «documenti manipolati», ma l’opposizione resta sul piede di guerra dopo aver già duramente criticato il riavvio dei rapporti col Giappone, arrivati a costo di ritirare la richiesta di risarcimenti per le vittime di abusi e lavori forzati durante la dominazione coloniale del secolo scorso.

Anello chiave di questo panorama può diventare l’India, che insieme alla Cina fa parte sia dei BRICS che della SCO (Organizzazione per la cooperazione di Shanghai), ma allo stesso tempo è inclusa nel QUAD e ha una contesa aperta con Pechino lungo l’enorme confine conteso. Negli scorsi mesi si sono verificati nuovi scontri tra i militari delle due parti ed entrambi i governi stanno mandando segnali di sovranità avviando nuove costruzioni o cambiando denominazione e status di luoghi e città lungo la frontiera. Una delle tante calde in Asia.

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