Il compromesso Meloni sembra aver vinto sulle partecipate, ma in realtà ne esce indebolita

La presidente del Consiglio pensava di fare la regina incontrastata, ma ha dovuto accontentare gli alleati e scontentare il fedelissimo Guido Crosetto. E alla fine non ha fatto una buona figura, anche perché all’Enel ha dovuto sostituire Francesco Starace, uno dei migliori manager italiani

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Pochi giorni fa in tv Romano Prodi dava consigli a Elly Schlein su come gestire il Partito Democratico in armonia con tutte le varie e complesse componenti. Faceva l’elogio del compromesso che non è una «brutta parola», anzi è il sale per tenere in piedi una comunità politica, a maggior ragione quando si governa e lui di compromessi ha detto di averne dovuto fare tanti nella sua passata esperienza di governo a capo dell’Ulivo prima e dell’Unione poi. Prevedeva di fatto che alla fine Giorgia Meloni avrebbe ceduto qualcosa sulle nomine apicali nelle aziende di Stato

È così è stato, mollando a Matteo Salvini e Silvio Berlusconi l’Enel. Anche lei tiene famiglia, in questo caso una maggioranza che deve affrontare una serie di questioni da far tremare le vene ai polsi. Non può avere dentro casa alleati scontenti, riottosi, umiliati proprio nel cuore del potere, nella gestione di dossier gonfi di denaro che vanno a impattare direttamente sui progetti del Pnrr. 

Il punto di partenza però era un altro: la presidente del Consiglio pensava di essere la regina incontrastata, di fare strike, di mettere a tacere Salvini e di minimizzare la richiesta del Cavaliere. Ai due non interessava confermare Francesco Starace che ha portato l’utility italiana a essere il più grande operatore privato di energia rinnovabile al mondo. Per la verità non interessava nemmeno a Meloni, che al comando di Enel voleva portare Stefano Donnarumma, l’ormai ex amministratore delegato di Terna che lo scorso anno aveva partecipato alla conferenza programmatica di Fratelli d’Italia, sancendo un patto di lealtà. 

Il capo leghista ha ottenuto la nomina al vertice dell’azienda dell’amico Flavio Cattaneo. Il Cavaliere, invece, la presidenza per il settantaseienne Paolo Scaroni che, quando guidava Eni, aveva abbracciato il gigante del gas russo Gazprom. Così facevano tutti in Europa, in verità, solo che Scaroni ci metteva un particolare zelo chez Berlusconi.

Ma andiamo oltre, parliamo di politica (si fa per dire). Parliamo del fatto che Meloni ha dovuto fare un compromesso democristiano, in pieno stile Prima Repubblica, sta cercando un posto a Donnarumma, ha piazzato a Terna Giuseppina Di Foggia (è la promessa più importante mantenuta dalla presidente del Consiglio sulle donne). Non poteva fare altro per non mettersi contro gli alleati. 

I messaggi le erano arrivati chiari e netti proprio dai capigruppo della Lega Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari, su input di Salvini. Il primo, en passant, le ha ricordato che il Carroccio è ritornato a crescere nei sondaggi e nelle urne di Lombardia e Friuli-Venezia Giulia. Riccardo Molinari, quando sembrava che Meloni facesse filotto, ha ricordato che non si è mai visto un presidente del Consiglio che decide tutto da solo. Intanto i leghisti facevano trapelare nei retroscena l’avvertimento: «Se non cede l’Eni, Giorgia la pagherà cara».

Meloni non poteva umiliare Giancarlo Giorgetti nel suo ruolo di ambasciatore leghista al tavolo delle trattative: il ministro dell’Economia avrebbe pure dovuto mettere la sua firma sotto le nomine che avrebbero fatto infuriare Salvini. Perdere il migliore alleato dentro il Carroccio non sarebbe stato strategico. 

Alla fine a essere ridimensionata è la presidente del Consiglio. Ha preso atto che non può permettersi di aprire una falla all’interno del governo e del Parlamento. Ha troppi fronti aperti. Deve giustificare al suo elettorato un Def che non fa sognare, l’allineamento coatto alle responsabilità europee, l’impossibilità di gestire l’ondata migratoria senza i soldi di Bruxelles. Rimane in bilico sui tempi e l’attuazione del Pnrr. Deve rimandare a un futuro incerto tutte le promesse elettorali, le sue e quelle di Salvini sulle tasse e le pensioni. Si troverà tra un anno a fare i conti con le regole di bilancio europee e la forca caudina del 3 per cento del Prodotto interno lordo entro cui tenere il deficit. 

Meloni non poteva permettersi strappi sulle nomine. Il compromesso democristiano è sempre provvidenziale quando la volontà di potenza si scontra la triste realtà di governare e di nominare in continuità con il passato. Eppure uno lo ha scontentato ed è il fondatore, assieme a lei, di Fratelli d’Italia. Guido Crosetto puntava tutto su Lorenzo Mariani per il vertice di Leonardo. 

Non è ancora chiaro perché Giorgia abbia accontentato tutti tranne il suo amico Guido. Gira la voce che il ministro della Difesa abbia in testa altri progetti politici e che lei gli abbia sbarrato la strada. Siamo ai limiti della fantapolitica. Rimane il fatto che Meloni sa di potere comandare in maniera assoluta solo dentro il suo partito. Vedremo se Crosetto se l’è legata al dito.

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