Operazione veritàIl Pnrr è un contratto tra chi paga e chi spende, non è il reddito di cittadinanza europea

L’incapacità dell’Italia di sfruttare le opportunità data dai fondi di Bruxelles dimostra che questo Paese non è strutturalmente in grado di procedere secondo piani e velocità concordate: sembra aver ragione chi dice che abbiamo preso e preteso troppo

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Per un Paese che ha festeggiato l’arrivo dei centonovanta miliardi di contributi e crediti europei del Piano nazionale di ripresa e resilienza, rabboccati dagli oltre trenta miliardi dei fondi nazionali del Pnc, come se avesse pescato il biglietto vincente in una lotteria europea, suona comprensibilmente oltraggiosa la polemica sui tempi e sui modi, in cui questa messe di risorse andrebbe spesa. Non sono forse soldi nostri?

Pensando di averli vinti, anzi conquistati al tavolo di Bruxelles, come premio dei meriti accumulati e risarcimento dei torti subiti da un Paese trascurato dall’Europa matrigna, e non ricevuti a misura dell’eccezionale gravità della crisi italiana, non c’è da stupirsi che gli elettori di osservanza populista e sovranista – la maggioranza bulgara dell’elettorato italiano – non si capacitino della voce in capitolo che donatori e creditori pretendono di continuare ad avere.

Sono irritati dall’invadenza della Commissione europea, chiamata a garantire che questo embrione di debito comune non diventi un potente incentivo al free riding fiscale e all’irresponsabilità finanziaria per gli stati beneficiari. A partire dal beneficiario più indiziato di tutti, l’Italia.

Il ministro Raffaele Fitto, nel commentare l’incaglio della terza tranche di finanziamenti del Pnrr, per una serie di rilievi di cui questo governo rifiuta l’addebito, rivolgendolo al precedente, ha detto due cose su cui si potrebbe anche convenire, ma intendendosi bene sul loro significato.

La prima è che occorre una grande «operazione verità» su quel che c’è nel Pnrr e su chi ce l’ha messo (tipo gli stadi di Firenze e di Venezia) e sulle ragioni dei ritardi destinati ad accumularsi e a sommarsi a quelli degli ordinari fondi di coesione, di cui l’Italia chiede costantemente il ragguaglio con spocchia recriminatoria, ma non riesce mai a spendere fino in fondo.

La seconda cosa che Fitto ha detto è che l’Unione europea deve tenere presenti le peculiarità italiane e quindi mostrare una particolare sensibilità a trattare l’Italia a misura delle sue caratteristiche, sperando che il ministro non volesse comprendervi anche una certa risentita suscettibilità.

Bene, partiamo dalla verità. Conta assai poco capire di chi sia la manina che ha messo dentro al Pnrr progetti risibili o impossibili, che, considerando i tempi in cui il Governo Draghi ha dovuto correggere il piano quinquennale euro-venezuelano ereditato da Giuseppe Conte, stanno ragionevolmente nel conto delle sviste o delle omissioni di necessità.

Conta invece di più capire perché, rispetto al grosso del Pnrr, l’Italia non sia strutturalmente in grado di procedere alla velocità di crociera concordata e perché, ad oggi, sembri avere ragione chi dice che abbiamo preso e preteso troppo e avremmo dovuto essere più frugali e modesti, cioè più sinceri.

A dire la verità – che non rimanda ad alcuna colpa bruxellese o extra-italiana – è stato ieri in una intervista a La Stampa Carlo Luzzato, ad del Gruppo Pizzarotti, che gestisce opere del Recovery per sette miliardi di euro, spiegando che non solo per il sistema pubblico, ma anche per quello privato «la sfida è insostenibile a queste condizioni e con queste scadenze». Solo nelle costruzioni mancano centomila addetti, le imprese sono piccole e a bassa produttività, avendo investito pochissimo negli ultimi vent’anni in innovazione e anche per questo i problemi di accesso al credito sono insormontabili e non si riescono a ottenere anticipi su appalti già aggiudicati.

L’incapacità dell’Italia di sfruttare le opportunità del Pnrr conferma la correttezza della diagnosi molto preoccupata sui destini dell’Italia, che ha portato a questa forte esposizione dell’Unione europea sui progetti finalizzati alla sua ripresa. Ma si rischia di non uscire dal circolo vizioso, se la posizione italiana nel negoziato sulla cosiddetta flessibilità con la Commissione partisse negando e non ammettendo le condizioni del Paese e proseguisse con la solita litania sovranista sui soldi che ci spettano e che il «comitato d’affari di faccendieri e usurai» dell’Unione (per citare una Giorgia Meloni d’annata pro Brexit) vergognosamente ci nega.

Se questa è la verità, questa è anche la vera peculiarità italiana. È una peculiarità che esige l’esatto contrario delle eccezioni, che l’Italia pretende da Bruxelles per derogare alle riforme connesse al Pnrr, ad esempio in materia di concorrenza, che si parli di concessioni balneari, della imprecisata sovranità alimentare o del regime degli appalti pubblici, che il ministro Matteo Salvini vorrebbe in gran parte «a chilometro zero». Il declino italiano è esattamente il prodotto di tutte le eccezioni e le rendite che l’Italia ha pensato di potersi permettere rispetto ai Paesi europei, che in questi vent’anni l’hanno sopravanzata nei principali indicatori economici e civili.

La peculiarità italiana è che se non faremo come gli altri, andremo peggio degli altri e che continuando a custodire gelosamente i nostri mali, come segni di chissà quale virtù e tradizione, seguiteremo a dissipare i nostri talenti.

Quindi se trattativa deve esserci con Bruxelles – ci sarà e non riguarderà soltanto l’Italia – dovremmo sperare di non incontrare interlocutori condiscendenti, ma di imbatterci in qualcuno che ci ricordi che il Pnrr è un contratto tra chi deve pagare e chi deve spendere questi quattrini e non è il reddito di cittadinanza europea dello Stato italiano.