«Se non meritano di passare progetti di altissimo livello come quelli di Venezia e Firenze, allora quasi tutto il Pnrr non dovrebbe essere autorizzato». Piano. Il virgolettato è del sindaco del capoluogo toscano, Dario Nardella, su Repubblica. Un paio di settimane fa, scolpiva il meme del mese, se non dell’anno, inseguendo un attivista climatico; oggi si accoda al collega della Serenissima, Luigi Brugnaro, nelle rimostranze contro i dubbi della Commissione europea su due progetti finanziati dal Recovery fund. La quota italiana, da 191 miliardi totali, è la più cospicua. A patto di saperla spendere.
Ricapitoliamo. L’erogazione della terza tranche (da 19,5 miliardi) era già slittata a fine marzo, ora viene rimandata di un altro mese, di comune accordo tra Roma e Bruxelles. La nota di Palazzo Chigi ammette che «sono oggetto di ulteriore approfondimento tre misure che erano state approvate dal precedente governo». Sullo stile – incolpare retroattivamente chi non può difendersi – torneremo. Delle «tre misure» la più discussa riguarda invece la riqualificazione dello stadio Artemio Franchi di Firenze e la costruzione del «Bosco dello Sport» a Venezia.
Rispettivamente, pescavano dal Pnrr per 55 e 93 milioni. L’esecutivo si è affrettato a chiarire che «fornirà ulteriori elementi a sostegno dell’ammissibilità di tutti questi interventi», lavorando «in modo costruttivo» con la Commissione. All’estero il Financial Times definisce «controversi» i piani e Politico conia un titolo dei suoi: «L’Italia becca un cartellino giallo per gli stadi finanziati con i fondi europei». Fuori non è così comprensibile dirottare i soldi, stanziati per la ripresa post-pandemica, verso impianti sportivi in due delle «regioni più benestanti» del Paese.
Non va convinta l’opinione pubblica degli Stati “frugali”, ma le istituzioni. In particolare, come abbiamo scritto, non vengono riscontrati due requisiti essenziali per le opere: la finalità sociale (Firenze) e la collocazione in aree urbane (Venezia). Il “Franchi” appartiene al Comune, che ha rimpallato ogni intemerata del patron italoamericano Rocco Commisso, intenzionato a edificare «uno stadio moderno, a me piacciono le cose nuove», diceva nel 2020. Sono insorti gli eredi dell’architetto Pier Luigi Nervi, il sito nel 2021 è stato protetto e alla fine si è optato per revitalizzare quel pezzo di storia.
«Potevamo rischiare che venisse abbandonato come successo al Flaminio di Roma», ha commentato Nardella a fine 2022, rivendicando «l’idea di utilizzare i fondi europei del Pnrr destinati alle opere pubbliche di rilevanza culturale». Il «supplemento di valutazione» riguarda una delle due voci dei quasi duecento milioni di euro in quota Pnrr (su 450 di investimenti): è sicura la principale (97 milioni) passa dal ministero della Cultura, sono state chieste verifiche su quella veicolata dal ministero dell’Interno (i 55 milioni, appunto) che riguarda i «piani urbani integrati». Entrambi gli importi vanno alzati, perché sono stati adeguati ai rincari delle materie prime, fino a una cifra complessiva di duecento milioni.
Uno stadio rappresenta un caso «un po’ al limite», secondo l’esperta interpellata dal Corriere fiorentino. Il capitolo di spesa è destinato a progetti di rigenerazione urbana: «Con quella tranche di Pnrr io non posso fare delle strade – ha spiegato Annalisa Giachi di Osservatorio Recovery –, ma posso realizzare delle piste ciclabili e delle tratte ferroviarie, perché in questo caso si tratta di infrastrutture che offrono un servizio pubblico e che hanno ricadute positive sull’ambiente».
Al tempo stesso, «non sarà impossibile farlo rientrare tra i progetti ammissibili», a patto di fornire motivazioni più specifiche su come il riammodernamento, durante il quale la Fiorentina giocherà altrove per due stagioni, contribuirà a riqualificare il quartiere. Palazzo Vecchio potrebbe puntare sul «museo per spazi espositivi» e l’auditorium realizzati al posto delle vecchie curve, sul nuovo parco a Campo di Marte, oppure sulla copertura di pannelli fotovoltaici che (testuale) «strizza l’occhio anche alla sostenibilità». I lavori dovrebbero cominciare questo autunno, per concludersi nel 2026.
Il «Bosco dello Sport» non sorgerà a Venezia, ma a Tessera, nella città metropolitana, sulla terraferma. In totale vale 308 milioni, 189 li mette il Comune. Si tratta di una «cittadella con stadio, arena e ampio polmone verde» (qui sopra i rendering, qui sotto la mappa). L’aggettivazione delle slide nella comunicazione pubblica meriterebbe un approfondimento a parte. La sigla dell’iniziativa veneta, per esempio, è «Più Sprint», acronimo un po’ creativo di «Piano Integrato Urbano per SPort Rigenerazione Inclusione Nel Territorio metropolitano veneziano».
Si parla di «zona baricentrica, quale luogo molteplice di costruzione di identità tramite la passione e l’esperienza sportiva di alto livello, di promozione di socialità attiva tramite la condivisione di momenti di sport informale, musica ed (sic) intrattenimento culturale, di educazione grazie alla presenza di scuole ed istituti di formazione». Per i fan del sottogenere, è meglio del periodare di Pietro Bembo. A parte le formule nebulose, «Più Sprint» prevede pure una nuova viabilità, per collegare l’intervento all’aeroporto.
Come in ogni storia italiana che si rispetti, c’è un ricorso di Italia Nostra. Brugnaro è ottimista, parla di semplici chiarimenti, di piani «già pronti, già partiti e che hanno già avuto il benestare» in passato. Ha apprezzato l’«unità». Il presidente dell’Anci, il dem Antonio Decaro difende la categoria: «Se si definanziano progetti come questi, peraltro con gare aperte e aggiudicazioni in corso, i sindaci non potranno restare in silenzio: non esiteremo a difendere queste scelte davanti ai cittadini».
Senza arrivare al «nessun amministratore si sentirà al sicuro» letto ieri, non si possono trascinare nella partita i municipi, responsabili del venti per cento dei fondi del Pnrr, ma prostrati dopo anni di spending review. Né cercare di attribuire un fallimento al governo precedente, come fa quello Meloni, a sei mesi dal giuramento. È vero che nel 2022 è stato speso solo il sei per cento dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, quindi le risorse si concentreranno tra il 2024 e il 2026. Era prevedibile, però.
«Non serve una radiografia, ma una risonanza magnetica», è indicativo il lessico scelto dal ministro Raffaele Fitto per sollecitare i colleghi. Questa «analisi netta e chiara delle criticità» si poteva forse metterla in moto prima della seconda proroga. Una delle variabili rispetto a quando c’era Mario Draghi – a parte la più ovvia – è proprio la diversa struttura che gestisce il Pnrr. A febbraio Fratelli d’Italia l’ha accentrata a Palazzo Chigi, sperando di recuperare i ritardi con una regia più politica di quella, tecnica, in capo al ministero dell’Economia.
Siamo un Paese con l’incapacità cronica di spendere i fondi che l’Unione europea ci corrisponde, salvo lamentarci della solita «burocrazia». Abbiamo una classe politica cintura nera di triangolazione delle colpe, purché non ricadano mai su di lei. Quello con la Commissione europea sugli stadi non è (ancora) l’ennesimo autogol italiano e neppure il «cartellino giallo» di cui ha scritto Politico: abbiamo “solo” centrato un palo. Possiamo chiarire. Siamo alla terza rata del Pnrr e stiamo accumulando proroghe, a fine giugno scadrà la quarta, da 16 miliardi. La partita, insomma, è ancora lunga e al modulo sperimentato dal centrodestra servono dei correttivi. Urgentemente.
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