Un’enorme ciambella dorata con un foro nero al centro. A vederla oggi ricorda il bagel oscuro che «contiene tutto» e che rappresenta il punto di collasso del multiverso nel film “Everything Everywhere All at Once”, il delirante capolavoro che ha vinto sette premi Oscar. Invece, è la prima fotografia di un buco nero. L’immagine, che sconvolse il mondo scientifico e fu proclama “scoperta dell’anno” dalla rivista Science, venne scattata nell’aprile 2019 come frutto di un lungo lavoro degli scienziati di Event Horizon Telescope (Eht), un consorzio internazionale che per la prima volta rivelò la forma del corpo celeste – dotato di una massa 6,5 miliardi di volte quella del sole – posto al centro della Galassia Virgo A.
Ci vollero anni per elaborare l’enorme quantità di dati disponibile e tradurla in una delle foto più famose del XXI secolo: il processo fu possibile grazie all’intelligenza artificiale e alla combinazione delle informazioni raccolte dai vari osservatori della rete Eht (attraverso un complesso sistema che simulava un enorme telescopio virtuale dotato della più elevata risoluzione angolare mai raggiunta).
Quattro anni dopo, la qualità dello scatto è diventata due volte più nitida. Anche in questo caso il merito è di un software basato su apprendimento automatico, PRIMO, che ha reso possibile ottenere una risoluzione dell’immagine migliore. PRIMO ha analizzato oltre 30mila simulazioni ad alta fedeltà di buchi neri, cercando schemi comuni nella struttura delle immagini e restituendo una proiezione realistica partendo dalla foto del 2019, come dimostrato dai risultati pubblicati su The Astrophysical Journal Letters.
Questi traguardi testimoniano come l’IA presti servizio all’astronomia già da diversi anni, ma anche quanto l’applicazione di modelli avanzati potrebbe portare a scoperte sempre più rilevanti. Come in molti altri settori scientifici, gli algoritmi di modelli di grandi dimensioni come ChatGPT potrebbero dare una svolta allo studio di stelle e pianeti, per interpretare la vastità dell’universo e la sua origine attraverso lo studio dei dati osservati. In fondo, l’astronomia consiste soprattutto nella ricerca di aghi all’interno dell’enorme pagliaio di galassie che ci circonda.
Fin dai suoi albori, l’astronomia ha cercato di dare un senso agli oggetti presenti nel cielo notturno, all’inizio scorgendo il firmamento a occhio nudo e poi attraverso il telescopio tradizionale, inventato dal tedesco Hans Lippershey e perfezionato da Galileo Galilei all’inizio del XVII secolo. Poi, circa cent’anni fa, lo statunitense Edwin Hubble utilizzò i telescopi di nuova costruzione per dimostrare come l’universo fosse pieno non solo di stelle e nubi di gas, ma anche di innumerevoli galassie. Con il progressivo perfezionamento di questi strumenti anche il numero di oggetti celesti osservabili è cresciuto in modo esponenziale e, di pari passo, anche la quantità di dati a essi collegati.
Oggi nel mondo esistono una ventina di telescopi con specchi di diametro che superano i sei metri; gli algoritmi di intelligenza artificiale sono l’unico modo con cui gli esperti possono sperare di elaborare tutte le informazioni che vengono prodotte da questi moloch astronomici.
Vale lo stesso per i radiotelescopi, utilizzati per rilevare onde radio provenienti dall’universo. Se non avete mai sentito parlare del programma SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) vi sorprenderà sapere che fin dal 1974, in California, esiste un’organizzazione privata senza scopi di lucro che si dedica alla ricerca di forme di vita aliene. Come? Inviando segnali della nostra presenza nel cosmo, ma anche captandone di eventuali provenienti da altre civiltà sviluppate. La sede operativa si trova a Mountain View, a un’ora di camminata dal Googleplex, il quartier generale di Google (tranquilli, le due cose non solo correlate).
Le intelligenze artificiali stanno giocando un ruolo serio anche in questo genere di “ricerca”, classificando i segnali captati come semplici interferenze radio o come possibili “comunicazioni”. Qualcuno rimarrà deluso dal fatto che, al momento, nessun rilevamento è stato preso in considerazione come evidente testimonianza di forme di vita in altre galassie. L’aspetto interessante è rappresentato da autoencoder, l’IA (ideata da uno studente dell’Università di Toronto) che è stata addestrata per identificare le caratteristiche salienti di queste intercettazioni: si tratta, in pratica, di un geniale strumento di scrematura della “pesca a strascico” effettuata dai radiotelescopi, che ottimizza in maniera esponenziale questo particolare processo di scandagliamento cosmico.
Non mancano altri esempi di sinergie efficaci tra IA e astronomia. All’Università di Aberdeen, per esempio, hanno sviluppato un sistema di rilevamento dei crateri della luna partendo dal Segment Anything Model (Sam), l’algoritmo di Meta che ci permette di ritagliare la sagoma del nostro collega di lavoro da una fotografia per applicarla sullo sfondo di una spiaggia della Polinesia francese. La nuova tecnologia ideata consente di mappare automaticamente la superficie lunare piuttosto che procedere manualmente, evitando la seccatura di un procedimento che richiede enormi sforzi e moltissimo tempo e velocizzando in questo modo l’identificazione di siti di atterraggio per missioni di esplorazione robotica o umana.
What a time to be alive, insomma. Circa 540 milioni di anni fa alcune forme di vita – i nostri antenati – iniziarono a emergere dai limacciosi fondali oceanici della Terra, in un evento noto come “esplosione cambriana”. Ora potremmo essere nel bel mezzo di un’esplosione cambriana per l’intelligenza artificiale, con ripercussioni inimmaginabili in un’infinità di settori, anche per quanto riguarda la nostra conoscenza dello spazio.