«La prevenzione non ha un grande appeal politico, perché se funziona nessuno se ne accorge. Un fiume che non esonda non fa notizia. E quindi non dà consenso politico. Molto meglio intervenire dopo un disastro, con la fascia tricolore e la promessa di fondi per ricostruire e ripristinare i danni. E un pianto per i morti». Questa l’amara constatazione di Mauro Grassi, l’uomo che, nel 2014, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi volle alla guida di Italia Sicura, la struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche, la cui principale finalità era «imprimere un’accelerazione all’attuazione degli interventi in materia di dissesto idrogeologico, nonché per lo sviluppo di infrastrutture idriche». Una task force governativa che in soli quattro anni aveva dato un forte impulso alla messa in sicurezza del nostro paese, aprendo 1445 cantieri per complessivi 1,4 miliardi di finanziamenti.
Nel 2018, lo stop. Arriva il primo governo Conte, quello gialloverde. E fra i primi atti del nuovo esecutivo, vi è la dismissione di Italia Sicura, in ossequio alla logica miope e suicida della frammentazione dei compiti, utile a sua volta alla moltiplicazione degli incarichi nonché alla negazione dei meriti altrui per meglio coprire i propri limiti. Ed eccoci di nuovo qui. Pochi mesi fa Ischia, oggi l’Emilia Romagna. Da sempre intrappolati in questo giorno della marmotta fatto di disastri, ai quali segue indignazione, infine le solenni promesse. Poi, qualche nuova crisi piomba a rapire l’interesse dell’opinione pubblica e a cancellare tutto. E via così, da un’incompiutezza all’altra.
Secondo l’ISPRA, sette milioni di italiani vivono in zone a rischio di frana e alluvione. Mentre riguardo all’attuazione di interventi per la mitigazione del rischio idrogeologico del territorio, impietoso è il dato che emerge da un’analisi della Corte dei Conti, datata ottobre 2021. Viene infatti evidenziata «l’inefficacia delle misure adottate, testimoniata dalla scarsa capacità di spesa e di realizzazione dei progetti e dalla natura prevalentemente emergenziale degli interventi». Tra le criticità viene sottolineata «la lentezza nell’attuazione degli interventi …, insieme alle vischiosità dei processi decisionali, alla mancanza di una vera pianificazione del territorio, alla carenza di profili tecnici adeguati all’interno degli enti territoriali».
Pertanto, al di là dei meriti o demeriti di singoli amministratori locali capaci o incapaci, emerge l’assoluta inadeguatezza del sistema a rispondere a calamità di crescente gravità e frequenza. Una progressione il cui parallelismo con il peggioramento degli eventi legati al cambiamento climatico è ormai innegabile. E aver «fatto sparire la trasparenza» nella progettazione da parte del governo Conte I, come accusa Erasmo De Angelis, ha fortemente contribuito a intrappolare l’Italia nelle pastoie della burocrazia, coi risultati che vediamo: morte, distruzione, progetti di una vita polverizzati in un attimo, economie locali spazzate via. «Gli ostacoli», specifica Grassi, «sono perlopiù di ordine burocratico e di disattenzione della politica. Troppi enti che hanno competenze, troppa frammentazione e scarsa preparazione tecnica nella gestione di un Piano. Si è sempre lavorato per compartimenti stagni e per input di breve periodo. Spesso sulla spinta emotiva di qualche disastro».
Una differenza abissale, ci spiega Grassi, sia dal punto di vista organizzativo sia da quello operativo, con il modello adottato da Italia sicura: «avevamo introdotto, forse per la prima volta in questo settore, la logica del Piano di lungo periodo. Con una Governance forte al “centro” (un unico centro di coordinamento) e una forte in “periferia” (il Presidente di Regione come Commissario di Governo). Italia Sicura gestiva sia le fasi di realizzazione del Piano sia quelle della sua esecuzione. Intervenendo laddove e allorquando si verificassero inerzie, ritardi e blocchi».
Mauro Grassi evidenzia poi come in un Paese che vive di “annuncite” e muore di immobilismo, Italia Sicura rappresentasse un modello virtuoso a cui rifarsi. Dimostrava che, se si vuole e si è capaci, le cose si possono davvero realizzare. Infatti, dell’ambizioso piano che prevedeva oltre 10 mila opere per un totale di 35 miliardi, già erano state appostate risorse per oltre 10 miliardi. E come già detto a inizio articolo, ben 1,4 miliardi erano già stati impiegati per aprire 1445 cantieri. Con orgoglio ma senza enfasi, Grassi afferma che «era l’inizio, ma era un buon inizio».
Per questo, prosegue, «la cancellazione di Italia Sicura ha ricacciato il sistema di prevenzione nel vecchio alveo con i vecchi vizi: frammentazione degli enti e delle risorse e quindi delle azioni, nessun coordinamento, visione di breve periodo, scarsa attenzione all’apertura dei cantieri, nessun intervento centrale su ritardi e inerzie delle regioni e dei comuni. Nei fatti si è bloccato l’avvio del Piano ed è ripreso il solito percorso lento e disarticolato sulla prevenzione strutturale».
Un paradosso nel paradosso è poi rappresentato dall’aspetto informativo. Un partito, il Movimento 5 stelle, che almeno a parole aveva fatto della trasparenza la sua bandiera, dà pieno mandato all’allora neofita Giuseppe Conte per abolire una struttura che la trasparenza la metteva in pratica. «Con Italia Sicura si poteva sapere tutto su risorse e impegni del Piano solo con un click. Ora le informazioni sono ridiventate lacunose, non aggiornate e difficilmente rintracciabili».
A fare da sfondo a queste deleterie sbandate recenti, le annose, incancrenite piaghe della mancanza di cultura del rispetto del territorio e dell’abusivismo. Due realtà complementari, che con la loro micidiale simbiosi hanno reso ampie aree del Paese un colabrodo, pronte a diventare teatro di nuove tragedie. Occorre «prima di tutto conoscere il territorio e i suoi rischi naturali. E in Italia non manca nulla: alluvioni, frane, terremoti, siccità, incendi, bradisismi e così via. Quindi fare una doppia opera di prevenzione. La prima è quella di gestire bene la presenza dell’uomo sul territorio. Quindi niente abusivismi, consumo di suolo eccessivo, edificazioni selvagge. La seconda è quella di fare opere di prevenzione strutturale (dighe, aree di laminazione, scolmatori, etc) e non strutturale (allertamenti, esercitazioni, formazione, etc). Per fare tutto ciò occorre un Piano nazionale di lungo periodo (almeno ventennale) e un soggetto centrale in grado di gestirlo e di coordinare tutti i soggetti coinvolti».