«Quanno te mettono il marchio sei come ’na bestia, non te lo leva più nessuno. Alle spalle tue se chiude il portone, trac e trac, e lì comincia un’altra vita. La chiave te chiude pure il cervello, la vita la puoi solo sognare». È così che Giulio C, 48 anni, detenuto a Regina Coeli, racconta il carcere. Secondo i dati di fine 2022, nel nostro Paese a portare questo “marchio” sono 56.225 persone: una popolazione in crescita che dietro le sbarre conduce un’esistenza sospesa e lontana dagli occhi di chi è libero.
Il carcere è un “non luogo”, un “contenitore a tenuta stagna” che non comunica con l’esterno e dove – sostiene il sociologo Zygmunt Bauman nel suo Vite di scarto – la società rinchiude i “rifiuti umani” che ha prodotto. Spiega Alessio Scandurra, dell’Osservatorio di Antigone, l’associazione che si batte per i diritti nel sistema penale: «Bisogna che chi esce dal carcere sia meglio attrezzato per la vita libera rispetto a quando è entrato, con competenze e aspirazioni nuove, mentre spesso purtroppo accade il contrario».
L’unica cura in grado di dare senso alla detenzione e al percorso di cambiamento – almeno secondo Salvo Fleres, ex Garante dei detenuti – è il lavoro. Per fortuna oggi c’è chi, come Officine 27 | Design galeotto, col lavoro costruisce un ponte tra “dentro” e “fuori”, e lo fa attraverso il design. Tutto ha inizio nel 2014 quando il Ministero della Giustizia propone a Giorgio Manfroni, titolare dell’azienda Metallica srl, di rilevare il laboratorio di carpenteria metallica all’interno del Carcere di Villa Andreino di La Spezia. Comincia così l’avventura che dal 2020 coinvolge designer e detenuti nella progettazione e realizzazione di arredi che – con i loro colori pastello e uno stile essenziale e contemporaneo – combinano al valore estetico anche quello sociale.
Dopo alcuni anni di produzione “anonima” dei primi modelli di sedute disegnate dal fondatore – Dima e Pivucì, ancora tra i best seller del brand – i designer Mattia Priola e Maria Manfroni si sono uniti al progetto, disegnando i tavoli delle collezioni e la serie di sedute r85, disponibili nell’e-commerce che Officine 27 ha inaugurato nel 2022. I designer sottolineano l’importanza per i detenuti di creare prodotti che saranno venduti all’esterno del carcere, come rappresentazione tangibile del proprio contributo alla società: «Quando finiscono una sedia, ti chiedono: questa dove va? Ovunque tu gli dica per loro è stupore». Anche se i progetti che portano il design in carcere non sono una novità, questa è la prima volta in cui lo vediamo usato dall’interno come strumento riabilitativo e di innovazione sociale.
È l’articolo 27 della Costituzione italiana – da cui il brand prende il nome – a stabilire che le pene carcerarie «devono tendere alla rieducazione», sancendo il diritto a un lavoro professionalizzante a fini rieducativi. Questo, purtroppo, non accade quasi mai. «La larghissima maggioranza dei detenuti lavora per periodi molto brevi svolgendo mansioni poco qualificanti e poco retribuite. È più un welfare interno che un lavoro vero, e questo non aiuta in prospettiva del fine pena», spiega Scandurra.
Al lavoro, invece, Officine 27 ci tiene: finora il brand ha assunto tre detenuti-artigiani, uno dei quali, Davide, ormai a fine pena e con una preziosa esperienza da saldatore alle spalle, sta formando un nuovo arrivato che oggi si occupa delle mansioni più leggere ma che, in futuro, potrà prendere il suo posto. «Il lavoro in carcere fa bene quando è duraturo e ben retribuito, perché consente al detenuto di aiutare la propria famiglia e di sentirsi una persona diversa da quella che è entrata». Nell’economia circolare, lo scarto dei processi produttivi non viene abbandonato, ma reintrodotto nella filiera di cui diventa parte integrante e, talvolta, imprescindibile. Se volessimo abbracciare l’idea di Bauman che esistano “vite di scarto”, allora forse dovremmo anche chiederci quanto sia sostenibile il sistema che questi scarti li ha creati e che, invece di valorizzarli, preferisce nasconderli.
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