Big timeLa grande bellezza del ritorno dell’arcangelo Peter Gabriel

L’ex frontman dei Genesis nella sua carriera solista ci ha regalato musica straordinaria e show epici, con l’i/o tour (domenica scorsa a Milano) ha portato sul palco un album che ancora non esiste, con dodici canzoni nuove e uno spettacolo che forse supera tutti quelli precedenti. La cronaca, brano per brano, di Carlo Massarini

Carlo Massarini

Peter Gabriel è la personificazione del concetto when the time is right: le cose succedono quando è giusto che succedano, non ci piace mai ammetterlo ma il cosmo funziona così. C’è un tempo per tutto, e a volte bisogna saper aspettare. E il tempo giusto è adesso, 2023, a distanza di ventuno anni dall’ultimo album di inediti e dieci dall’ultimo tour, quando hai quasi perso le speranze che a settantatré anni l’artista che ci ha dato alcune delle canzoni, delle maschere, degli show più belli della nostra vita sia ancora in grado e (soprattutto, perché del talento non si dubita mai) abbia ancora voglia di stare a quei livelli. E invece.

Peter è sempre sorprendente, expect the unexpected, come gli piaceva dire quando stava ancora cercando la sua identità solista, fra dischi e spettacoli fantastici (chi si dimentica del Secret World Tour?) e progetti multimediali pioneristici. Sorprendente, per tanti motivi, questo tour lo è: innanzitutto dodici canzoni nuove, molte totalmente inedite, quelle che sta distillando luna piena dopo luna piena sul web e che andranno a comporre il suo nuovo album alla fine dell’anno (alla fine dell’anno?!): il tour di un disco che ancora non esiste, contro ogni regola.

Anche l’inizio non è esattamente quello che ti aspetti: Peter irriconoscibile nella tuta arancione dei suoi tecnici, che parla di come la Madre Terra grazie a noi stia rischiando di ritornare a quattro miliardi di anni fa. E poi, con quello humour che ben conosciamo, continua: «Gli Abba hanno fatto uno show virtuale in cui i loro avatar avevano dieci anni e dieci chili di meno, tutti belli biondi. Il mio avatar invece ha dieci anni e dieci chili di più e…», levandosi il cappello, «…è pelato. Io in realtà sono seduto al sole di una spiaggia tropicale».

Se fossimo in salotto, invece che nella pancia del gigantesco Forum, ci sarebbero sorrisi e abbracci e i ragazzi griderebbero «venite, venite! zio Peter è tornato!». Ma in un certo senso salotto è, tutti intorno al focolare «come quando non c’erano le lingue e si comunicava con la musica»: a semicerchio, sotto una maestosa luna piena che lentamente diventa calante e alla fine solo “dark side” scorrono acustiche “Washing of The Water” e “Growing Up”.

Il grande cerchio mobile che sovrasta il palco, papà cerchio con i nove piccoli che gli si muovono intorno e con le sorelle led verticali dietro che si spostano in orizzontale, creeranno per due ore uno spettacolo per gli occhi davvero pazzesco. Meglio di quanto pensate possibile. Perché Peter, aiutato ancora una volta dal regista Robert Lepage, ha un dono poetico che rende fascinoso il normale, pensate se siamo in ambiente di extra-ordinarietà.

Introduce “Panopticom”, la prima delle release degli inediti quest’anno, ricordando le opportunità dell’intelligenza artificiale: educazione per tutti, cure mediche a basso costo, e la trasparenza garantita da una grande memoria dove registrare tutte le azioni, buone e cattive (questa un po’ utopica, ricorda il film “Final Cut”, ma non si sa mai). Poi, con l’inserimento della sempre gloriosa “Digging In The Dirt”, arriva una sequenza di cinque canzoni nuove: “Four Kinds Of Horses” è la prima, mentre sul grande cerchio l’orologio digitale fa un countdown e la sua immagine si scompone in centinaia di pixel che volano via. Con la title track dell’album che sarà, “i/o”, in and out, i led si animano di colori vivissimi, sembra il mondo di Avatar, cellule e mitocondri che fluttuano in un mare blu e verde, «cose che escono e cose che entrano/ io sono solo una parte del tutto». In modo più o meno esplicito, i temi di Gabriel sono sempre quelli: la tecnologia (e ora l’AI), la natura, le ricadute dei cambiamenti (esistenziali, politici, scientifici) sul nostro spirito, sulle nostre relazioni.

L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, l’universo intero e il minuscolo personale sono temi difficili da raccontare in una canzone, arrivano come segnali in codice da decifrare, sono tasselli in un quadro che si riempie e si svuota. “Four Kinds Of Horses” parla della ripetitività attraverso un personaggio forse apocalittico, «come il più dark dei supereroi/ hai fatto irruzione nella nostra paura»; “Playing for Time” è malinconica, tante foto e immagini sparse che a poco a poco si raccolgono in un cuore di ricordi; “Olive Tree” è di nuovo uno sguardo sulla Natura, sui suoi simboli; “This Is Home”, «so che questa è casa/ è a casa che ho bisogno di stare/ so che tu sei la mia casa», è un ritorno all’intimità, al proprio mondo più discreto e più privato, mentre i led rimandano librerie, porte, finestre, fiori, giardini, l’interno e l’esterno di una casa che in metafora è il centro di tutto. “Sledgehammer” col suo r’n’b pompatissimo chiude la prima parte, tutti in piedi in mezzo a un tripudio di colori e fiori e spermatozoi e insetti e funghetti e api, il sottinteso sessuale del testo celebrato da due coccinelle che trombano felicemente su una foglia.

Non sembra davvero di aver ascoltato mezz’ora di musica totalmente nuova, e il merito è anche della nuova band allargata che Gabriel ha messo su per questo tour mondiale, una goduria assoluta: oltre ai fedelissimi (Tony Levin, Manu Katché, David Rhodes), ci sono i nuovi e portano tanto di più: una seconda chitarra+flauto (Richard Evans), una tromba (Josh Shpak), e i fiati danno una dimensione nuova al suo suono; poi ci sono Don McLean alle tastiere, una violinista (Marina Moore) e la clamorosa Ayanna Witter-Johnson al violoncello (e canto, come vedremo), tutti insieme contribuiscono vocalmente e hanno un suono di una potenza e una pulizia, una delicatezza e una base funky (dove serve) strepitose. Ma questo non è ancora nulla.

“Darkness” apre la seconda parte, si ferma e riparte di continuo, il contrasto fra i passaggi lenti accompagnati da archi seduttivi e quelle accette acide a seicorde che picchiano e stridono è enorme. Peter si muove fra questi sussulti dell’anima, cappello in testa, come un uomo preso in mezzo alla sua natura dualistica, «ho paura di poter essere un diavolo/e ho paura ad essere divino», lo stato d’animo sospeso fra inquietudine e pace, in un’atmosfera onirica: «Più a fondo vado, più diventa buio/guardo attraverso la finestra, busso alla porta/e il mostro di cui avevo così paura/giace rannicchiato sul pavimento come un bambino».

La segue quella che deve essere una delle composizioni nuove che lascerà un segno nei nostri cuori, “Love Can Heal”: «In qualsiasi casino ti trovi/ quando l’edificio è crollato e ti ha lasciato indifeso/ l’amore guarisce». E lo fa davvero, sono cinque minuti di terapia, di tante tecniche di terapia combinate: la voce, calda e intima di un uomo che sa come parlarti; la musica, che avvolge e ti invita a entrare in un’altra dimensione; il coro, che spinge quel «love can heal» come un’onda dentro di te; e infine i visuals cromatici di Anthony Micaleff. È difficile descrivere una magia, figurarsi se visiva. Un fondale come un enorme vetro, e tante goccioline d’acqua, grandi e piccole, che si muovono: possono essere un cielo di stelle punteggiato di viola o uno d’argento attraversato da scie rosse, e tanto altro. I cerchi piccoli bassi, di una tenue luce verde. Quando Peter, in primo piano negli schermi, sopra il coro canta un solo grande, lunghissimo Love, trattengo il fiato mentre Peter lascia andare il suo con una intensità tale che anche lui, alla fine, sembra trasfigurato, l’arcangelo che ha invocato il Signore con tutto sé stesso. Indimenticabile.

“Road To Joy” è esattamente quello, un riff nella sua tipica vena r’n’b, una strada verso la gioia apparentemente spensierata se non fosse per quel teschio e quel dito medio delle due sculture inossidabili dietro che ruotano. La verità è che la scaletta due momenti da apnea non poteva farteli fare: quando parte lenta quella melodia, «questa canzone parla di connessioni», e sai che stai per emozionarti di nuovo e di brutto, capisci quanto servisse un intervallo. “Don’t Give Up” è la metafora di tutti i momenti terribili che uno vive e di come solo la lealtà e l’amore incondizionato dei tuoi cari possano farti sopravvivere. Peter è un attore consumato, con il physique du rôle giusto quando si abbandona seduto a testa china sul palco, mentre Ayenna raccoglie la torcia di Kate Bush nel portare una voce di conforto a quella disperazione. È una voce nera, questa (prima) volta, e l’emozione decolla. La gente è sorpresa da tanta bellezza, applaude a scena aperta, più volte. Da lì alla fine, quando Peter sale la scala e si ricongiunge con lei, è un pianto di quelli che non devi neanche provarci, a fermarlo. Troppo bello. Quando ti ricapita? Sette minuti di intensità oltre il limite, da quanto tempo? E’ questo il genere di musica che devi andare a sentire. Capisco bene marito e moglie di Lecce vicini a me e quelli di altre province lontane che investono e dedicano due giorni a questo pellegrinaggio laico. Consapevolmente o meno vengono a curarsi, a ricaricare l’energia dell’anima.

Le percussioni e il lento sinuoso ritmo di “The Court” porta alla “Pioggia Rossa”, e qui è come tornare a casa: la ritmica di Rhodes è veramente micidiale, e celebriamo anche il ritorno di Manu Katché che, semplicemente, ha il più bel suono di batteria del mondo. Aggiungi Tony Levin, con uno di quei bassi che sembrano delle balestre futuribili, ed è il vecchio trio di amici da sempre. Poi Peter si siede al pianoforte e dedica ai genitori scomparsi due canzoni accorate, “And Still” a mamma Edith e “What Lies Ahead” a papà Ralph.

È l’ultimo momento di intimità, da qui si corre in crescendo verso il finale. Gonfia i muscoli e l’ego, ragazzo, è tempo di “Big Time”. Stufo del fatto che ormai ai concerti non ci si possa muovere, pure se quelli sul palco che in fondo sono i padroni di casa la buttano in funk (la security davanti fa sedere una che ha osato: stai scherzando ragazza? Sei a un concerto rock, seduta!), c’è una sola soluzione: in fondo alla sala con una bibita in mano, lo spazio c’è and the time is right. Si balla, “Alla Grande”.

Un’altra nuova, “Live and Let Live”, sagge parole caro zio, parte come una ballata leggera, già con un bel ritmo sotto, e poi si trasforma: ritmo hip hop spinto da una masterclass in diretta di Katchè, lentamente si porta su un groove irresistibile, e diventa un gospel di quelli che davvero ti danno la gioia di esistere. Non sai più dove sei, se in un joint di Harlem o in un club africano o in una chiesa del Sud: davanti a te c’è solo una muraglia di luce e di suono che acceca ed eleva. Wow. Poi arriva “Solsbury Hill” ed è festa grande, tutti in piedi adesso si può, quando arrivano i superclassici l’eccitazione esplode. Migliaia di mani verso il cielo su quel triplice Boom Boom Boom del cuore, I’ve come to take you home: portaci dove vuoi tu, Peter, siamo pronti.

Il finale è prima gioioso, «la luce e il calore che vedo nei tuoi occhi», poi drammatico, ancor di più per la luce rossa che invade palco e platea: quando tutti scivolano via, e anche Manu Katché mentre la gente continua a cantare sospende il suo ritmo tribale sui tamburi, si alza e se ne va, sul grande cerchio appare il volto di Stephen Biko, e il viaggio anche questa volta è concluso.

Peter è tornato, questa è la notizia. In forma vocale eccellente, e con una dozzina di nuove canzoni, alcune delle quali già memorabili, un concerto che è un banchetto di classici della casa ormai entrati nel Dna e di altri futuri classici che hanno la freschezza dell’appena sfornato. Verona e Milano le prime due tappe del tour mondale, grazie di questa primogenitura. Musicianship stellare, visuals da nutrire la fantasia, scaletta audace e perfetta. E quella magnifica fiducia ricambiata che Peter non sia in giro a fare il greatest hits, per quanto prezioso, ma che, come è sempre avvenuto, i suoi incantevoli spettacoli siano sempre nuovi, sempre diversi. Questo forse il migliore di tutti. Peter Gabriel è tornato, e non solo per riportarci a casa, ma per spostare ancora una volta in avanti la frontiera.

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