A roma sono arrivati i funzionari europei delegati a valutare lo stato di avanzamento dei progetti e delle riforme del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Secondo quanto riporta La Stampa, hanno fatto visita a due ministeri e continueranno la verifica nelle prossime ore.
Il tutto mentre i 55 obiettivi della terza rata del Pnrr, scaduta il 31 dicembre, non hanno avuto ancora il via libera formale da Bruxelles. Di fatto, manca ancora il semaforo verde all’erogazione dei tanti attesi 20 miliardi. Mentre incombono le scadenze di fine giugno.
Dopo i (troppi) mesi dedicati alla riforma della governance del piano, il ministro degli Affari comunitari Raffaele Fitto deve accelerare. Ha nominato il responsabile della task force che accentra i poteri di gestione a Palazzo Chigi, ovvero il consigliere della Corte dei Conti Carlo Alberto Manfredi Selvaggi, ma non ancora i quattro responsabili ai quali è affidato il coordinamento delle singole missioni. Di qui in poi la nuova struttura di missione sotto il controllo politico di Fitto dovrà coordinarsi con il ministero del Tesoro.
Intanto Fitto prova a stringere soprattutto sulla revisione del piano, pena la sospensione della quarta rata in scadenza il 30 giugno. Il commissario europeo Paolo Gentiloni aveva chiesto di presentare un piano entro il 30 aprile, in tutta risposta il governo ha preso tempo fino al termine legale del 31 agosto. Ma poiché Fitto ha già ammesso che non raggiungerà al cento per cento alcuni obiettivi, il governo dovrà presentare una proposta di rinegoziazione del piano ben prima di agosto. Se così non fosse, ci sono buone probabilità che l’Italia nel 2023 non riceva nemmeno un euro di fondi Pnrr.
La somma fra ritardi e nuovi equilibri sta creando tensioni nella macchina dello Stato. Prima si è innescato un botta e risposta fra Fitto e la Corte dei Conti sulle responsabilità da attribuire ai funzionari, ieri è stata la volta delle Regioni: i presidenti (soprattutto quelli di sinistra) lamentano l’accentramento dei fondi a Palazzo Chigi. «Se in nove anni abbiamo speso il 34 per cento su 126 miliardi dobbiamo cambiare modalità di spesa», dice Fitto. «Non condivido nulla, stiamo arrivando a livelli di centralizzazione preborbonica», la risposta del campano Vincenzo De Luca.
Ma il Corriere punta il dito anche sulla polverizzazione dei progetti: quasi 80mila mini appalti starebbero intasando gli uffici di tutta Italia. Il tutto per un valore di meno di 70mila euro. Oltre 300 comuni contano almeno trenta appalti del Pnrr per ogni dipendente, uscieri inclusi.
Com’è noto sull’esecuzione del Piano nazionale di ripresa e resilienza non esistono informazioni trasparenti e complete. Ma – spiega il Corriere – Carlo Altomonte dell’Università Bocconi e al capoeconomista della Cassa depositi e prestiti Andrea Montanino, stanno studiando «OpenCup», la banca dati sui «Codici Unici di Progetto» che contiene tutti i piani basati con relativi enti attuatori e importi. Ne è uscito uno studio sorprendente del Pnrr Lab della Sda Bocconi, il centro studi animato da Altomonte aperto ad alcuni dei grandi attuatori del Piano e altri operatori come Enel, Ferrovie dello Stato, Intesa Sanpaolo, Adecco o Snam.
Probabile tuttavia che né il secondo governo di Giuseppe Conte, né quelli di Mario Draghi o Giorgia Meloni abbiano mai avuto la consapevolezza di questa estrema frammentazione. Essa sembra frutto dell’inerzia amministrativa della politica locale che distribuisce il denaro, suddiviso in grandi «missioni», giù per i rami dei territori. Circa 28mila progetti valgono fra 70 e 180 mila euro, per esempio. Gli appalti più piccoli peraltro sono concentrati non solo nelle regioni tirreniche del Sud (quelle con le amministrazioni più fragili), ma anche in Piemonte, Lombardia, Lazio e Marche. Esistono invece solo 3.300 appalti del Pnrr da più di cinque milioni di euro e valgono nel complesso 76 miliardi. Altomonte e Montanino suggeriscono un rimedio: spostare molti dei microprogetti sui fondi europei ordinari, per concentrare le forze sui grandi piani del Pnrr che fanno davvero la differenza.