Più soporifero del dibattito sulle riforme istituzionali c’è solo il dibattito sull’allarme democratico delle riforme istituzionali fatte solo da una parte, ovviamente se la parte è la destra perché quando, come nella tragica stagione del titolo V della Costituzione, le ha fatte da sola la sinistra l’apprensione magicamente scema.
Il dibattito sulle riforme e le polemiche sulle riforme sono il nostro giorno della marmotta, la perenne ripetizione dell’identico, una specie di scemenza artificiale che addestra le migliori menti della nostra generazione a non imparare niente dall’esperienza e semmai a reiterare gli errori del passato, un formidabile algoritmo umano basato sul disimparare automatico, “machine unlearning”, che dovrebbe essere studiato alla Silicon Valley quanto a precisione ed efficacia della sua capacità predittiva: finisce, infatti, sempre a schifìo. E poi si ricomincia come se non fosse successo nulla.
Ci risiamo, dunque: le riforme istituzionali. E vai con presidenzialismo, semi presidenzialismo, sindaco d’Italia, premierato forte, modello Westminster più qualunque combinazione a vanvera tra questi modelli, solitamente affidata alle cure del dentista Roberto Calderoli, un luminare di sistemi istituzionali comparati fin da quando ha sperimentato sul campo di Pontida le nozze padane col rito celtico.
Di solito il segnale inequivocabile che sia arrivato il momento di spegnere la luce è quando – dopo aver esaurito le cartucce sul sistema francese o su quello tedesco, e aver scongiurato una qualsiasi porcata calderoliana – qualcuno propone per incanto di adottare il sistema di voto alternativo all’australiana. Ci arriveremo presto anche a questo giro, perché ci arriviamo immancabilmente dal 1991, anno del referendum sulla preferenza unica.
Da allora sono trascorsi trentadue anni – in politica un’eternità quasi quanto quella che nel calcio misura la frequenza degli scudetti del Napoli – eppure i partiti e i leader non demordono, insistono a parlarne, a fare e a disfare, invece di occuparsi di cose serie come per esempio non sprecare la montagna di miliardi europei del Pnrr, far funzionare la sanità, costruire le infrastrutture necessarie ed evitare che la scuola pubblica sforni ulteriori ondate di grillini.
Il dibattito sulle riforme questa volta probabilmente è anche peggiore rispetto ai cicli precedenti, e non come scrive Ezio Mauro perché al governo c’è la destra, ma perché all’arma di distrazione di massa delle riforme istituzionali se ne aggiunge parallelamente un’altra che è quella delle elezioni europee del 2024.
Un’altra arma di distrazione di massa non perché Bruxelles sia poco importante, tutt’altro, piuttosto perché le strategie dei partiti e dei leader politici, nessuno escluso, sono esclusivamente indirizzate a conquistare i migliori piazzamenti possibili alle elezioni del 2024, anziché affrontare oggi le questioni cruciali per modernizzare il paese, sviluppare l’economia e riconoscere più diritti e più garanzie ai cittadini.
In mancanza di idee e di capacità di realizzarle, la politica italiana si aggrappa al dibattito sulle riforme istituzionali e rimanda i problemi a elezioni lontane al solo scopo di trovare in esse un significato salvifico, un segno di speranza in grado di garantire il perdono e la riconciliazione con gli elettori. Ma è solo ammuina, è solo merce dozzinale, è solo inadeguatezza.