Quando iniziai a comprendere il potere trasformativo del jiu jitsu, mi appassionai all’insegnamento e raffinai la mia capacità di cambiare le persone e il loro comportamento. Era un modo per andare oltre le lezioni di arti marziali, aggiungevo qualcosa alla vita delle persone. Mio padre mi insegnò che se volevo essere un ottimo istruttore, non dovevo pensare al jiu jitsu solo come un insieme di tecniche da insegnare, ma anche come un’educazione psicologica.
Oltre al combattimento, gli studenti devono imparare ad avvertire il pericolo, a distinguere tra pazienza e passività e, quando perdono, devono sapere che non sono necessariamente sconfitti. Per prima cosa, quando insegni, devi capire che persone hai davanti. Se sono troppo suscettibili, tranquillizzali. Se sono troppo tranquilli, accendigli una fiamma sotto il culo. Se sono passivi, rendili più aggressivi. Mio padre e Rorion mi insegnarono come istruire non solo il lottatore, ma la persona a tutto tondo – inclusa la sua mente.
Quando esercito pressione fisica sugli studenti, vedo le loro vere personalità, mi mostrano cose che quando non sono sul tatami riescono a nascondere: lo stato del loro equilibrio emotivo o l’abilità nel gestire la pressione, per esempio. Una volta ottenute queste informazioni, le uso per adattare un piano di studi alle necessità degli allievi, da cui ognuno di loro trarrà profondi benefici.
Non gli faccio esaminare solo come lottano, ma anche come si sentono quando lottano. Se gli allievi lo fanno onestamente, non migliorano solo nel jiu jitsu; si rimodellano come persone, diventano più forti. Imparano a essere più tenaci, più intelligenti, più resilienti – non solo nella lotta, ma anche nella vita di tutti i giorni.
Avevo circa diciassette anni quando incontrai Sergio Zveiter presso l’accademia del centro e iniziai a dargli lezioni private. Aveva venti o ventuno anni e si era appena laureato in Legge, ma già da allora sapevo che avrebbe fatto strada in ambito giuridico o in politica. Diventammo buoni amici e dopo le lezioni spesso andavamo a mangiare fuori e a fare surf.
Poiché eravamo entrambi molto esperti nei nostri rispettivi campi, avevamo tanta stima reciproca che diventò un legame profondo. Negli anni successivi Sergio diventò il mio consulente più fidato. Non mi piaceva solo per la sua perspicacia; era anche molto diretto. Se avevo un dubbio gli chiedevo sempre cosa ne pensava, sapevo che mi avrebbe sempre dato la sua opinione onesta, che mi piacesse o no.
A diciassette anni ero un istruttore di jiu jitsu a tempo pieno e facevo più soldi di un direttore di banca. Se non mi allenavo, passavo il tempo alla spiaggia di Ipanema insieme con i surfisti. A differenza dei miei amici criminali, che erano molto più aggressivi e interessati solo a scopare e fare a botte, i surfisti erano degli hippie e pensavano solo all’amore.
Al centro delle nostre vite c’erano le onde e la spiaggia. Il mare mi ha sempre riequilibrato molto. Se sono teso ed entro nell’oceano, ne esco rilassato. Se entro che sono pigro e stanco, me ne vado energizzato. L’oceano mi dà l’energia in più di cui ho bisogno e mi toglie quella in eccesso. Fiumi e cascate mi fanno lo stesso effetto. Quando ero un ragazzino mi piaceva starmene in acqua finché non congelavo, poi andavo in spiaggia e mi rotolavo nella sabbia bollente per riscaldarmi. All’inizio utilizzavo dei materassini gonfiabili da surf, poi tavole in polistirolo e alla fine passai alle vere tavole da surf.
Realizzai che il mare era un luogo dove potevo mettermi alla prova e superare i miei limiti. L’oceano è troppo forte per affrontarlo; devi seguire la corrente, rimanere calmo e trovare la tua rotta dentro e fuori situazioni incredibilmente complesse. Un giorno, intorno a quel periodo, ero in spiaggia a vedere le onde durante una giornata di burrasca. Non c’era nessuno perché tirava vento e il mare era agitatissimo.
Notai un ragazzino magro con i capelli lunghi che se ne stava sul bagnasciuga con una tavola da surf rossa. Si rivelò essere Pepe, un amico di mio fratello Rolls che fu uno dei primi surfisti brasiliani a cavalcare onde giganti. Mi sedetti e lo vidi entrare nel mare agitato, e poi surfare con eleganza disinvolta e maestria come non avevo mai visto prima. Pepe era un po’ più grande di me, ma non di molto. Se lui riusciva a surfare in quel modo, allora avrei potuto riuscirci anche io. La mia missione diventò ottenere la cintura nera di surf.
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