Confusione strategicaL’ultima trincea dei riformisti non può essere la difesa dei lager libici e del populismo istituzionale

Ci sono molte ragioni per criticare Schlein e il suo Pd, ma non tutto quello che si è fatto a sinistra prima di lei era oro purissimo. E non tutto quello che lei sta provando a cambiare merita di restare com’è

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Sono tempi complicati per i riformisti, quale che sia la particolare accezione con cui s’intenda il termine e con chiunque li si voglia identificare. Le notizie di questi giorni ne offrono un quadro decisamente disarmante.

Prima le proteste di Enzo Amendola, Marianna Madia e Lia Quartapelle, che non hanno votato con il resto del gruppo parlamentare del Partito democratico un ordine del giorno presentato da Alleanza Verdi-Sinistra assai critico verso le passate scelte compiute proprio dal Pd, con Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi e Marco Minniti al Viminale, sul memorandum d’intesa con la Libia; poi l’addio di Carlo Cottarelli, già il quinto a lasciare il partito a seguito dell’elezione a segretaria di Elly Schlein con l’argomento che la nuova leader lo avrebbe spostato troppo a sinistra (dopo Giuseppe Fioroni, Andrea Marcucci, Enrico Borghi, Caterina Chinnici, scusandomi se ho dimenticato qualcuno, e dopo avere noiosamente precisato che Cottarelli lascia il Parlamento, più che il Pd, con il quale si era limitato a farsi eleggere); nel mezzo, l’avvio della discussione sul presidenzialismo, in cui il terzo polo apre all’ipotesi di elezione diretta del presidente del Consiglio, già sostenuta da Matteo Renzi in campagna elettorale con la vecchia (ma non per questo meno discutibile) formula del «sindaco d’Italia», e anche da Carlo Calenda, convinto che il capo del governo debba avere più poteri, a cominciare da quello di «scegliersi la sua squadra» (che sarebbero, presumo, i ministri).

In altre parole, il terzo polo è contrario all’elezione diretta del Capo dello Stato, ma pienamente favorevole a sottrargli ogni prerogativa, trasformando di fatto il suo ruolo in quello di un arbitro senza fischietto né cartellini, una specie di carica onorifica teoricamente sovraordinata alle altre ma di fatto disarmata e spogliata di ogni autorità, tanto più nei confronti di un presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo, massima fonte di legittimazione.

Personalmente ho maturato un giudizio piuttosto critico circa i primi passi di Schlein come segretaria del Pd, e prima ancora come candidata del gruppo dirigente uscente mascherata da opposizione radicale (motivo per cui considero il caso Cottarelli, candidato come capolista da Enrico Letta in quella stessa lista che aveva in Schlein la sua portabandiera, nient’altro che un equivoco).

Vorrei però capire meglio quali sarebbero i valori e le idee che si dovrebbero contrapporre alle scelte della nuova segretaria, in difesa di quale diversa concezione della sinistra o anche del centrosinistra (o persino del Pd). Se il pragmatismo, il realismo, il senso di responsabilità che tipicamente i riformisti vantano nei confronti dei propri compagni più radicali comprende i lager libici o l’ennesimo giro sulla giostra del populismo istituzionale (quanto di meno pragmatico, più irrealistico e più irresponsabile si possa immaginare, come la storia di questi trent’anni dovrebbe avere ampiamente dimostrato), personalmente, farei fatica a riconoscere la legittimità della pretesa.

Non perché non riconosca come una parte consistente dei riformisti, sebbene raramente maggioritaria, dentro e fuori il Pd, abbia a lungo dato precisamente questa interpretazione del proprio ruolo. Ma perché penso che questa lunga tradizione non sia l’ultima delle ragioni che spiegano il loro attuale declino.

Di sicuro, non tutto quello che si è fatto a sinistra, prima dell’arrivo di Schlein alla segreteria, era oro purissimo. E non tutto quello che lei sta provando a cambiare – anche da un punto di vista riformista – merita di restare così com’è.

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