L’Unione europea decreta la fine dei motori termici al 2030. Tutti? Sì certo. Ma poi apre la porta agli e-fuel tedeschi. Quelli e basta. Per i biofuel sostenuti in primo luogo dall’industria italiana, che già ci lavora da tempo con Eni, strada sbarrata. Ma forse no: si potrebbe aprire uno spiraglio. E comunque ci sono fondi Unione europea attivi e proprio sui carburanti alternativi per motori termici già da alcuni anni.
Sul Fair Share – l’idea di far pagare ai giganti della rete una quota di partecipazione agli investimenti per lo sviluppo di una infrastruttura che i loro dati utilizzando già ben oltre il cinquanta per cento della sua capacità – la Commissione Europea si è gettata di slancio, specie attraverso il commissario al Mercato Interno Thierry Breton. Ma poi ha frenato e ripiegato su una consultazione che non finirà prima dell’estate e con esiti molto incerti.
Sui principi ispiratori di queste misure nessun dubbio: combattere l’emergenza climatica attraverso la transizione energetica è un obiettivo condiviso da tutti; intervenire sulla debolezza del sistema delle tlc europee, rafforzando delle telco troppo piccole e finanziariamente indebolite per trattare da pari a pari con le web tech a stelle e strisce, ha un consenso meno universale ma sicuramente condiviso tra i maggiori stakeholder del settore in tutta Europa. Ma un conto è condividere gli obiettivi, e un altro è concordare sulle strategie e le azioni da intraprendere, che troppo spesso soffrono di un approccio dirigistico e poco attento alla complessità delle realtà sottostanti.
Chi non ricorda il caso del cosiddetto semaforo per la salubrità degli alimenti. Sul Nutriscore l’Unione europea litiga dal 2004 senza essere ancora giunta ad una posizione, nonostante paesi come Germania, Francia, Belgio, Spagna ne abbiano già adottato in via volontaria una qualche forma. D’altra parte è difficile mettere assieme informazioni corrette dal punto di vista salutistico se nello stesso calderone finiscono la Coca Cola e le bevande gasate e zuccherate, uno dei principali obiettivi del Nutriscore, assieme all’olio extra vergine di oliva. Senza valutare non solo la diversa origine di cibi spazzatura e di alimenti naturali prodotti da un semplice processo meccanico, ma anche che, se le bevande gasate si consumano a litri, l’olio si utilizza a cucchiaini.
La stessa miopia sta offuscando i regolatori di Bruxelles nel caso del nuovo regolamento sul packaging, quello ribattezzato contro la plastica monouso e a favore del riciclo.
Anche qui il principio è sacrosanto: produciamo troppi rifiuti e li ricicliamo poco. Ma il nuovo regolamento europeo sposa il riuso in modo esclusivo, non lascia liberi i Paesi di raggiungere gli obiettivi – tutti condivisi – partendo da quanto hanno già fatto, chi più e chi meno. E l’Italia, che per una volta in questo settore è più avanti della media europea con un ben rodato sistema di raccolta differenziata che ha raggiunto in anticipo gli obiettivi sulle quote di plastica, carta e cartone, vetro e alluminio riciclati grazie a un sistema che unisce pubblico e privato – le imprese finanziano la raccolta differenziata dei Comuni – si troverebbe a dover ricominciare da zero con un sistema che sposta tutti i costi sulle sole imprese, sia le grandi che le piccole.
A fare i conti in tasca alla strategia europea sul riuso è stata la McKinsey, che è andata a calcolare i costi effettivi di un sistema che vada a recuperare, per poi riusarle, buste e scatole per l’e-commerce, da una parte, e contenitori e tazze per alimenti e bevande per la distribuzione in take away dall’altra.
Il risultato è che andando a considerare non solo i costi di produzione e smaltimento dei singoli contenitori, ma anche quelli di pulizia e soprattutto dei trasporti – i contenitori da riusare vanno recuperati, portati a impianti di rimanifattura e igienizzazione, e infine ridistribuiti – il bilancio di sostenibilità dell’intera operazione, alle condizioni attuali, è drammaticamente negativo: i costi raddoppiano e le emissioni di CO2 crescono, in maniera variabile a seconda del prodotto, da un minimo del dieci per cento a un massimo del centocinquanta per cento. In particolare, maggiori costi ed emissioni – stima McKinsey – derivano in larghissima misura dal maggiore utilizzo dei trasporti per movimentare i cicli di riuso dei prodotti: l’ottanta per cento dei costi e il sessantacinque per cento delle emissioni.
E non è finita. Lo stesso sta accadendo con il Pdp, Product Digital Passport, il passaporto digitale dei prodotti che ne garantisce la sostenibilità dalla produzione allo smaltimento. A marzo scorso la Commissione ha depositato una proposta di implementazione delle regole varate con la Direttiva Ecodesign del 2009.
Si tratta di un insieme di misure che vogliono promuovere una maggiore durata dei prodotti, la loro riusabilità, la “rimanifattura” dove possibile – ossia la possibilità di sottoporli a nuovi processi industriali che li rimettano sul mercato – il riciclo dei materiali, la certificazione dell’assenza di sostanze dannose nella lavorazione, l’impronta energetica.
Allo stato attuale sono ancora solo proposte, ma c’è chi ha sollevato dei dubbi. Legati soprattutto all’introduzione, in simultanea con il varo delle nuove norme, del Passaporto Digitale del Prodotto. Che in sostanza dovrebbe diventare un codice Qr o un codice a barre da applicare su ogni prodotto e che ne riporti tutte le sopracitate caratteristiche e anche quelle legate agli imballaggi con cui ogni prodotto viene rilasciato sul mercato. Il fatto è che non si capisce bene chi dovrebbe leggere questi codici digitali al momento dello smaltimento di un prodotto che i consumatori hanno scartato.
Già lo scorso autunno la proposta di Product Digital Passport (lanciata un anno fa) ha raccolto perplessità e rilievi da parte di principali governi europei. Tra le critiche, il superlavoro per le Authority di controllo nazionali, non attrezzate a verifiche così capillari, i costi per le imprese, specie le Pmi e le startup, per cui potrebbe costituire una barriera all’ingresso in un nuovo mercato.
E anche i gestori di impianti di riciclaggio, che trattano quotidianamente centinaia di tonnellate di prodotto di scarto e che dovrebbero scansionarli invece uno per uno per determinare il tipo di smaltimento. Insomma, un eccesso di burocrazia che potrebbe anche finire per rallentare i progetti di economia circolare già intrapresi e funzionanti.
Mettere a punto altri e più congrui metodi di intervento è possibile. L’Unione dovrebbe ascoltare di più i singoli Paesi membri. Ma anche i singoli Paesi membri, Italia in testa, dovrebbero imparare a stare di più a Bruxelles per far valere le loro ragioni, e non considerare l’Unione solo come un distributore di fondi.