In Ucraina hanno esaurito le tombe. Lo racconta il New York Times, da Leopoli. La città è considerata «sicura» dai media generalisti che a forza di contabilizzare le notizie, assimilarle in schemi ripetitivi, le anestetizzano. Ricompare in quella cartografia solo quando è colpita da quanto, degli sciami missilistici russi, scampa alla contraerea. I bollettini delle vittime civili, dei liveblog dei siti, a tratti ricordano, per stanchezza, quelli delle infezioni da coronavirus, un tempo quotidiani. Non può essere così, non deve essere così.
In una riga la storia è questa: per far spazio ai caduti della guerra di oggi, sono stati riaperti i sepolcri scavati nei conflitti precedenti. Accanto ai militi ignoti delle due tragedie novecentesche, il sacrificio di una generazione che non avrebbe dovuto conoscere simili orrori, ma glieli ha inflitti la famelicità di un dittatore, un rascismo in perfetta continuità ideologica con gli altri “-ismi” della Storia. Di loro conosciamo i nomi, le professioni prima di essere costretti a imbracciare le armi. Spesso abbiamo anche le ultime foto, in uniforme.
Sono morti in una controffensiva che è, non dimentichiamolo, prima di tutto una lotta di liberazione. «Qualcuno crede sia un film di Hollywood e si aspetta risultati ora, ma non lo è», ha detto il presidente Volodymyr Zelensky alla BBC nel giorno in cui è intervenuto alla conferenza sulla ricostruzione di Londra (nella foto qui sotto). «Ciò che è in ballo, qui, sono le vite umane».
Ci commuoviamo per una frazione di minuti, prima di scrollare all’articolo successivo, tornare a vite tutto sommato identiche a come lo erano quando le élites si illudevano di addomesticare Vladimir Putin. Lo ammiravano perfino. Nel frattempo, il Cremlino testava in altri pezzi di mondo la tortura, l’armamentario da genocidio esportato poi in Ucraina.
Il popolo ucraino, invece, vive ogni giorno lutti indelebili. Oltre una cortina non di ferro, ma di indifferenza. Le immagini dei funerali collettivi a Leopoli piacciono ai telegiornali, agli «album» delle agenzie fotografiche, per il dispiegamento di bandiere, il blu e il giallo, le lacrime degli astanti, il tridente sulle divise. Ma non sono coreografie. Rischia di confonderci l’apatia con cui ogni notizia, alla fine, viene impaginata in una gerarchia dove tutto si misura, anche qualcosa che non si può misurare.
La politica ripete questo meccanismo. La resistenza di Kyjiv non può sbiadire nel cesto delle varie «priorità» da gestire. Ai leader che semplificano, alle sommosse da palco, mancano visione e leadership. Semplicemente c’è (ancora) una guerra in corso. L’impressione è che il bipopulismo italiano – per non dire europeo – applichi con successo all’Ucraina il decoupling fallito quando si trattava di sganciarsi dal gas russo.
Scorpora «pace» e «vittoria», senza capire che non esiste la prima senza la seconda. Vorrebbe relegare i caduti della primavera allo stesso oblio della frettolosa celebrazione collettiva di un 4 novembre, data cara ai patrioti al governo ma lontanissima. Non bastano le corone di fiori o i tweet. I «sì, ma», i «sediamoci a trattare» che spianerebbero la strada, senza il ritiro russo, alle imboscate di Putin. Agganciare volti e storie alle statistiche aiuta a sottrarre la guerra alla spettacolarizzazione.
A fare parallelismi storici corretti, se proprio vogliamo farne. Le notizie di questi giorni testimoniano severe perdite, su entrambi i fronti. Rivedremo le bare ammantate nelle bandiere. Questa newsletter ogni settimana prova ad aprire una prospettiva sull’Europa, o su uno dei suoi Stati membri. Ogni tanto dobbiamo ricordarci del ventottesimo Paese dell’Unione, che combatte perché resti libera.
I padri fondatori dell’Europa l’hanno sognata nel buio belluino dei totalitarismi, nell’esilio. In un’epoca dove nessuno muore più per un’idea – figuriamoci per un ideale – nel primo giorno d’estate, non lasciamo scolorire al sole il coraggio degli ucraini che considerano l’Europa, la promessa racchiusa in quel futuro, una causa abbastanza grande da sacrificarle la vita.
È un sacrificio che non si può pareggiare, ha riconosciuto la presidente della Commissione europea von der Leyen, a Londra, dove il primo ministro britannico Rishi Sunak l’ha apostrofata «la mia amica Ursula». Una cosa possiamo farla, però, ha detto von der Leyen: «Restare uniti e determinati perché l’Ucraina deve vincere, vincerà e avrà il nostro sostegno non solo finché sarà necessario per ottenere la pace, ma anche per il Paese che immagina». Uno Stato membro dell’Ue.