Inchiesta “La cultura della destra” pubblicata originariamente sul Foglio in tre puntate del 10, 11, 12 marzo 1997
Gennaro Malgieri, direttore del Secolo d’Italia e deputato di Alleanza Nazionale, ha tre libri nel cassetto. Trovare un editore che glieli pubblichi non è più un’utopia come un tempo, ma a tre anni da quel 27 marzo del 1994 che ha segnato lo sdoganamento politico della destra post fascista, è pur sempre impresa difficile. Le grandi case editrici non pubblicano testi di autori così marchiatamente di destra, sia pure moderata e moderna come Malgieri.
Filippo Facci, in una lettera al Foglio che ha aperto il dibattito sulla cultura di destra e sui pochi spazi culturali disponibili per chi non è di sinistra, l’aveva scritto: «Mondadori sostiene che per gli autori di destra non c’è mercato». Insomma se sdoganamento politico c’è stato, per quello culturale c’è ancora da attendere. E i tre testi di Malgieri sono destinati a rimanere nel cassetto ancora un po’, in attesa di momenti migliori.
Alle parole di Facci, Malgieri sul Foglio del 4 marzo ha risposto con una provocazione: se nessuno si è accorto della rigogliosa cultura della destra di questo secolo, la colpa, dice, è di un «ostracismo intellettuale» perpetrato dalla cultura conformista nei confronti di tutto ciò che non era strettamente di sinistra. «Vigeva un pregiudizio illuministico – continua il direttore del Secolo – e si praticava l’egemonismo culturale come arma per la grande battaglia della ricerca del consenso. Hanno vinto loro, non c’è dubbio: il gramscismo applicato e il pensiero unico cattocomunista».
Ma se egemonia di sinistra c’è stata, anche e soprattutto in termini di occupazione di posti nelle case editrice e nei giornali, l’ambasciatore e politologo Sergio Romano ricorda che quando una cultura è feconda riesce ad emergere «In Unione Sovietica, per fare l’esempio limite, il sistema era molto caricaturale: bastava che si citasse Lenin alle prime righe per tenere buona la censura. Poi si poteva scrivere tutto».
Romano fa fatica a distinguere una cultura di destra da una di sinistra: «Certo De Maistre non è democratico né liberale, e Panfilo Gentile è liberale ma non democratico mentre la sinistra è democratica. Questa può essere una distinzione che vale solo per i pensatori politici o per gli storici. Ma ci sono molti altri autori ai quali è impossibile dare un’etichetta, soprattutto perché parlano e scrivono d’altro. Chi l’ha detto che John Tolkien, Lewis Carroll o Joseph Kipling erano di destra? oppure, come mai si dà per scontato che l’Ulisse di James Joyce sia di sinistra solo perché l’intellighenzia progressista considera tutte le avanguardie e gli sperimentalismi roba sua?».
Emilio Gentile, storico ed erede della cattedra di Renzo De Felice alla Sapienza, concorda con Romano nel non essere sicuro di poter «qualificare un autore come di destra o di sinistra. Il fascismo, per esempio, era di destra o di sinistra? Giuseppe Prezzolini che si autodefiniva di destra ma era un anarchico-conservatore emarginato anche dalla destra, come lo si può definire? E un personaggio come Ignazio Silone, emarginato per il suo anticomunismo, non era forse di sinistra?».
Si può parlare, dunque, di cultura della destra senza distinguere tra il filone post fascista e quello liberale? Senza dimenticare, aggiunge Gian Enrico Rusconi, professore di Scienza della Politica a Torino ed editorialista della Stampa, «che c’è anche la grande tradizione democristiana. Il pensiero più nobile della cultura italiana di destra è quello di Augusto Del Noce, cattolico antifascista snobbato dall’Msi. In Italia se c’era una destra che poteva diventare seria era proprio quella di Del Noce che ha trovato ascolto solo in Comunione e Liberazione. È stato emarginato da tutti, tranne che dalla parte più moderna della Dc. Pensate ai meeting di Rimini sul Mito (1985, “La bestia, Parsifal e Superman”, ndr), cos’erano se non la la modernizzazione della mitologia del Graal?».
C’è poi l’ala liberale della cultura di destra, anche se per Sergio Ricossa, economista dell’Università di Torino, «il liberalismo più avanzato non è né di destra né di sinistra». Karl Popper è stato pubblicato con oltre vent’anni di ritardo da un piccolo editore, Armando Armando, e a cura di Dario Antiseri; lo stesso si può dire delle opere di Frederik Von Hajek e della scuola viennese di economia. Scontavano, così come Del Noce e Silone, il tabù anticomunista più che il pregiudizio antifascista di certa cultura conformista.
Per Romano, l’occupazione dei posti culturali da parte della sinistra più che censura ha prodotto una specie di linguaggio conformista, «una koiné» e certe liturgie egemonizzate dalla sinistra. «Ipocrisia conformista delle sezioni Pci», la definisce Saverio Vertone, germanista e senatore di Forza Italia, secondo il quale «in questi 50 anni il conformismo della cultura di sinistra è stato tale che oggi, contro ogni evidenza, si arroga la rappresentanza e il primato di un mutamento in senso liberale e liberista».
Tanto che, aggiungono Ricossa e Gentile, oggi siamo arrivati al paradosso che non ci si può dichiarare anti popperiani. Malgieri, facendo l’elenco di autori e intellettuali di destra che per essere considerati tali non hanno avuto spazi, cattedre e giornali dove farsi conoscere e apprezzare, cita personaggi degli anni Trenta e spesso non italiani. Forse anche perché la destra italiana nata durante il fascismo ha visto emigrare le sue migliori leve verso i lidi antifascisti.
Numerosi intellettuali di sinistra parteciparono in gioventù ai Littoriali, le olimpiadi culturali degli universitari fascisti, prima di trasmigrare tra il 1941 e il 1943, senza eccessiva angoscia e magari servendosi del comodo ombrello della «sinistra fascista», nel partito comunista. «È stato un fenomeno abbastanza diffuso, anche se non sempre dettato da opportunismo», ricorda Ricossa. Un continuismo fascismo-antifascismo che potrebbe aver contribuito alla mancanza di una cultura di destra forte nel nostro paese. Si è trattato, dice il condirettore di Panorama Pierluigi Battista, di «un trapasso di massa ben descritto da Ruggero Zangrandi nel suo “Lungo viaggio attraverso il fascismo”.
Stenio Solinas, capo delle pagine culturali del Giornale, lo spiega così: «Persa la guerra e crollato il fascismo, chi non aveva fiducia nel sistema liberale prendeva dal comunismo quegli ideali più vicini all’anima rivoluzionaria di 30 anni prima. Ma i più integri, come Ardengo Soffici o Giovanni Papini, non cambiarono bandiera e vissero come dei grandi sopravvissuti nell’Italia repubblicana». Malgieri ricorda, invece, Marco Ramperti: «Un giorno Angelo Rizzoli senior gli diede un assegno. “Scriva lei la cifra”, gli disse. Ramperti lo stracciò e “Non posso scrivere per chi ha cambiato casacca”. Morì pezzente».
«La cultura di destra è così elevata che è più facile spiegare il Capital di Karl Marx a un metalmeccanico piuttosto che ‘Essere e Tempo’ di Martin Heiddeger a un bottegaio», così Pietrangelo Buttafuoco, un irriverente della destra postfascista, descrive le difficoltà incontrate dalla cultura di destra a imporsi nel nostro paese. «Abbiamo sbagliato – continua Buttafuoco – nel tentativo di scimmiottare la sinistra. Come si fa a dire che anche la nostra cultura è importante se l’operazione che si compie è quella di contrapporre Friedrich Nietzsche a Marx, Mario Bernardi Guardi (editorialista del Secolo, ndr) a Massimo Cacciari, oppure Marcello Veneziani a Ralf Darhendorf?».
La destra, in questi ultimi anni, si è pianta addosso per l’ostracismo subito dal dopoguerra a oggi. E probabilmente a ragione. L’economista Sergio Ricossa invita però a non lamentarsi per essere stati trattati male «bisogna dimostrare di essere superiori».
Eppure per qualcuno è difficile non recriminare. Stenio Solinas, capo della redazione culturale del Giornale, sa che «l’ostracismo c’è stato» e pensa sia «ridicolo che si dica che non è vero». Solinas si è laureato in modo rocambolesco nel ’73 alla Sapienza di Roma. Dirigente del Fuan, organizzazione universitaria dell’Msi, chiese, e alla fine ottenne, una tesi su Giuseppe Prezzolini, mentre il consiglio di Facoltà dibatteva se cacciarlo o meno dall’Università perché studente non democratico. Il giorno della discussione della tesi, fuori dall’aula gli studenti di sinistra organizzarono un corteo. Intervenne la polizia, Solinas non riuscì nemmeno a discutere la tesi e la commissione gli diede solo due punti. Uscì dall’aula solo alla sera, scortato dalle forze dell’ordine e accompagnato da Alberto Asor Rosa nel ruolo di garante della sua incolumità.
Il clima era quello, impedire a uno studente fascista di laurearsi non era reato e, aggiunge Solinas, «gli autori di destra non erano ritenuti degni di essere studiati, a meno che lo studio non venisse dalla stessa area che li riteneva indegni». Anche con queste cose si può spiegare il deficit culturale della destra italiana: «È vero, gli elettori dell’ex Msi sono ignoranti come bestie, ma mentre si prendevano calci in bocca, chi poteva avere tempo per studiare?», dice Buttafuoco.
A destra si cita sempre l’esperienza della casa editrice Rusconi e del suo direttore Alfredo Cattabiani che tra il ’69 e il ’79 ruppe il muro del silenzio su autori e opere rimaste ai margini dei circuiti culturali. «Il termine destra veniva omologato automaticamente al fascismo – dice il filosofo di sinistra Giacomo Marramao, presidente della Fondazione Basso – e invece se si guarda alla politica editoriale della Rusconi si vede che anticipava il filone portato al successo da Adelphi». Cattabiani ricorda i “cordoni sanitari” che la sinistra voleva stringere intorno alla Rusconi: «Ho pubblicato autori di una grande ala della cultura europea messa al bando dal conformismo. Quando uscì il ‘Signore degli anelli’ di Tolkien, ottenne una sola recensione, sul Tempo. Eravamo ignorati e demonizzati e io porto ancora dentro di me quel trauma».
«Quello che uccideva, era il silenzio – conferma Solinas – eravamo un mondo di paria intellettuali, espunti dal dibattito culturale. Eppure, il filone di destra, nazionalista, nichilista e di critica alla modernità, quello di Ernst Jünger e di Carl Schmitt e della rivoluzione conservatrice è il grande pensiero della destra non liberal-capitalista». Fu il socialista Walter Pedullà, ex presidente della Rai e docente di Letteratura a Roma, a coniare l’espressione ‘cordone sanitario’: «Intendiamoci, finché si parla di una cultura di destra moderna, che stimola e dà l’idea di grande vitalità, è un conto; ma quando, come nel caso di Cattabiani, si compie una operazione nostalgica, arcaica, e di restaurazione di un modello che non serve a nessuno, il discorso cambia».
I grandi pensatori di destra di questo secolo, secondo Angelo Panebianco, professore di Scienza della politica a Bologna, «rappresentano un filone minoritario che è un bene sia stato nel ghetto». L’editorialista del Corriere si chiede a cosa possa servire la critica da destra al liberalismo: «Schmitt e Junger sono autori illiberali: bastano e avanzano le tante critiche che provengono da sinistra. Chi si piange addosso perché ghettizzato rappresenta idee che non meritano indulgenza. Quanto all’egemonia culturale della sinistra, è l’effetto e non la causa di un pensiero liberale minoritario. Con la nascita dei partiti di massa, le vecchie elite liberali sono state scalzate dalle elite dc e pci che hanno ereditato lo Stato fascista. In futuro, se il bipolarismo non verrà travolto potrebbero crescere e affermarsi anche le idee liberali».
Saverio Vertone non si stupisce per il predominio di una cultura di sinistra: «In questo secolo, in Europa si è costituito lo Stato sociale e in questa situazione è stato difficile per una cultura di destra affermarsi. In Italia poi, la ventata anarchica del ’68 unita a un cattolicesimo post conciliare e a un marxismo già disorientato dalla crisi dell’Urss, ha consolidato un conformismo dalla struttura di cemento armato impossibile da perforare. Ora, invece, si avverte uno spostamento della bilancia a favore di chi vuole riformare il Welfare e si aprono spiragli per chi sta a destra».
Marco Tarchi, ricercatore di Scienza della politica a Firenze, è considerato una delle menti più lucide della destra italiana, anche se da tempo si è allontanato dall’Msi e oggi è vicino ai Verdi. Negli anni 70 ha diretto la rivista “La voce della fogna” ed è stato uno degli animatori della Nuova Destra sulla scia dell’esperienza francese di Alain de Benoist. Tarchi ha coniato, per chi come lui ha vissuto da destra quegli anni, l’espressione di “Esuli in patria”: «L’egemonia di stampo gramsciano ha fatto emergere l’impressione che dopo il tracollo dei fascismi la destra non avesse espresso niente di rilevante culturalmente. E il mondo neofascista italiano ha fatto poco per produrre una cultura autonoma. Sono emersi una serie di personaggi che definisco calligrafi e imitatori della solita lezione tradizionalista alla Joseph de Maistre e di richiamo a un’identità culturale precisa senza svolgere un ruolo evolutivo e autocritico». Il tentativo della nuova destra fu proprio quello di «sottoporre la destra a un bagno di innovazione», ma venne ostacolato in particolare dalla destra politica.
A sinistra un gruppo di intellettuali come Massimo Cacciari e Marramao cercò un dialogo con la nuova destra: «Se vogliamo capire una serie di contraddizioni delle democrazie di massa multiculturali e multimediali – dice Marramao – raramente possiamo trovare una diagnosi nei teorici democratici, dobbiamo, piuttosto, ricorrere ad autori di destra come Junger e Schmitt. La grande cultura di destra è riuscita a giungere a una definizione spietata dei termini costitutivi del potere e dei meccanismi che determinano l’asservimento di massa. La sinistra, invece, è rimasta ferma alla divisione di classe».
E se la cultura di destra fosse stata ostracizzata dalla destra stessa più che dal conformismo di sinistra? È noto, infatti, che la parte politica di derivazione post fascista, Msi prima e An poi, abbia avuto un rapporto tribolato con la cultura e gli intellettuali. Non a caso chiunque tentasse di infrangere il muro dell’isolamento culturale finiva sempre vittima del reducismo dei nostalgici e delle paure dei vertici del partito. Nel vecchio Msi non c’è mai stata simbiosi tra personale politico e intellettuale, il partito era chiuso in se stesso, faceva continui richiami all’appartenenza e alla tradizione e ogni tentativo di dibattito era visto come un tradimento o un cedimento al nemico. «La classe dirigente del Movimento sociale – ricorda il politologo Marco Tarchi, allora giovane intellettuale di area – era incapace di confrontarsi con la modernità».
Conservatorismo di maniera, nazionalismo, collettivismo e un po’ di esoterismo evoliano erano i filoni culturali entro i quali si muoveva l’Msi. «Ci accusavano – dice Stenio Solinas, oggi capo della redazione culturale del Giornale e allora uno degli intellettuali di Nuova Destra – di voler mettere in discussione l’eredità del Ventennio e di esserci venduti ai socialisti, invece volevamo semplicemente uscire dal tunnel del neofascismo, fare un esame disincantato del dopoguerra e respingere ogni ipotesi totalitaria».
Così, quando negli anni 70, è emersa la proposta politica della Nuova Destra di Marco Tarchi, Gennaro Malgieri e Stenio Solinas si creò una frattura drastica tra l’establishment politico dell’Msi e coloro che, considerati come perditempo o fomentatori di discordia interna, volevano sottoporre il partito a un bagno di innovazione. «A quel punto – continua Tarchi – si è capito che non esisteva più la prospettiva di una cultura di destra impegnata nel dare risposte ai problemi della modernità».
C’è da dire, però, che anche a sinistra chi intraprese un dialogo con gli intellettuali della Nuova Destra non fu visto di buon grado. E non era solo Ferdinando Adornato, oggi direttore di Liberal e allora capo delle pagine culturali dell’Unità, a scagliarsi contro Massimo Cacciari, Giacomo Marramao e gli altri intellettuali che decisero di partecipare ad alcuni convegni del gruppo di Tarchi. Non si perdonava loro di aver legittimato un’area culturale impresentabile e venivano accusati di irrazionalismo e di pericolosa e ingovernabile eresia. Questi settori della sinistra, dice Marramao, non si rendevano conto che «il modo migliore per creare miti è proprio la strategia del silenzio».
Ma se la sinistra, tutto sommato comprensibilmente, non vedeva di buon occhio queste contaminazioni, l’errore della destra politica fu la mancanza di fantasia e di coraggio del suo ceto dirigente e intellettuale. Se ghetto c’è stato, così come oggi lamenta Malgieri, la responsabilità è anche di chi per anni è stato essenzialmente nostalgico, incapace di dialogare con altri filoni di pensiero accontentandosi di godere di una rendita politica di posizione.
«La cappa di piombo del nostalgismo – dice Tarchi – ci escludeva dal mondo esterno». Eppure c’era molta vivacità: decine di riviste, convegni (sia pur snobbati dlla cultura «ufficiale»), c’era in moto «un tentativo di ricollocarsi nel proprio tempo» come dice Tarchi. Ma nel partito prevaleva la logica di nicchia e si puntava su un’identità nostalgica. «C’era un elemento psicologico di accettazione del ruolo di rappresentazione del mondo dei vinti», dice il condirettore di Panorama, Pierluigi Battista. Era la linea di Giorgio Almirante, contro la quale all’interno del partito, in quello stesso periodo, ci fu il tentativo fallito di Pino Romualdi, Ernesto Di Marzio e Beppe Niccolai, ma anche la stessa area rautiana rappresentava un’isola di elaborazione culturale.
Dopo il successo elettorale del marzo 1994 è stata dunque sdoganata una realtà rimasta nell’ombra per decenni. Con molta furbizia, che in politica non è detto sia cosa negativa, l’Msi ha modificato la ragione sociale e, come dice Solinas che la scorsa estate è stato protagonista di una polemica con il gruppo dirigente di An, ha buttato a mare il proprio retroterra culturale senza compiere una revisione storica. Si è tolta la camicia nera e ha indossato un abito liberale. «Un’operazione di facciata, la definisce Solinas, anche perché la classe dirigente finiana era la più conservatrice e immobilista nei confronti dell’identità fascista».
A parte la «destra sociale» che si riunisce intorno a due riviste Area e Pagine libere, gli eredi dell’Msi oggi si dichiarano liberali. Ed ecco che sulle pagine culturali del Secolo compaiono recensioni ammirate di due libri del capofila degli anarco-liberisti americani, Murray Rothbard ma non una riga su Enzo Erra che due anni fa ha pubblicato Le radici del fascismo. «È l’ennesima frattura tra essere e dover essere – commenta Tarchi – c’è una corsa a impossessarsi di filoni culturali estranei, quelli che la sinistra non prende, per darsi una patente di credibilità».
Un complesso di inferiorità culturale, che Tarchi definisce «imbarazzante e deplorevole», culminato nel seminario di San Martino al Cimino dove la classe dirigente finiana si è fatta bacchettare dai professori liberali di Forza Italia. Quando, poi, la destra post fascista assimila all’emarginazione dei propri autori quella subita dai liberali, compie un’operazione di legittimazione politica della linea di Alleanza nazionale che stride con la realtà, anche perché gli avversari più irriducibili delle analisi per esempio della Rivoluzione conservatrice, sono proprio loro: i liberali.
L’ostracismo e l’occupazione degli spazi culturali da parte della sinistra è un dato di fatto, ma questo grande agitarsi della destra politica potrebbe nascondere l’ambizione di mettersi in fila essa stessa per partecipare alla spartizione dei posti di potere prima negati.
«Il punto è un altro – dice Gian Enrico Rusconi, politologo e editorialista della Stampa – che cosa aspettano, ora che non sono più perseguitati, a tirare fuori nuovi autori? Mi sembrano scandalosamente assenti sul piano della produzione culturale. Circolano sempre gli stessi quattro o cinque nomi e non c’è niente di originale. La censura c’è stata, ma adesso? Perché hanno aspettato che fosse la rivista di sinistra Limes a riprendere il concetto di geopolitica?».
È la stessa amichevole critica che fa notare a Giampiero Mughini come la destra in questi anni non abbia saputo dire nulla e, a parte qualche talento giornalistico – dice il giornalista che qualche anno fa con Galli Della Loggia e Battista diresse Pagina, rivista che curiosò su quel mondo – non abbia prodotto niente di rilevante «né un libro né una vignetta né un film né una puttana».