Con o senza ghiaccio, l’amaro è un vero e proprio prodotto nazionalpopolare, uno dei tanti orgogli del Made in Italy. Da Vipiteno a Ragusa, berne un bicchierino dopo cena è un rito irrinunciabile per molti cittadini, indipendentemente dalla provenienza geografica. Una passione che, come testimonia l’andamento dei mercati, non conosce crisi o frenate: i dati di Nielsen, diffusi da Federvini, mostrano che nel 2021 la vendita di amari è cresciuta del +24,6 per cento in volume e del +24,4 per cento in valore.
Spesso, però, passa in secondo piano la versatilità di un liquore straordinario non solo per la sua storia, il suo rapporto con la tradizione italiana (ogni Regione ne vanta almeno uno) e le sue proprietà dovute agli infusi di piante amare e aromatiche.
Ci riferiamo, in questo caso, all’utilizzo degli amari nella mixology: «Anche pochissime gocce di Fernet, ad esempio, cambiano la struttura di un drink. Ce ne sono di diversi che vengono usati spesso nel nostro mondo. Basti pensare alla Chartreuse in Francia: la preparano dal 1600 ed è un mix di centotrenta erbe e spezie, con un discreto quantitativo di zucchero all’interno», racconta a Linkiesta Eccetera Daniele Celli, bar manager dello speakeasy 1930, che sul suo sito ufficiale si autodefinisce «il bar più inaccessibile di tutta Milano». E forse d’Italia, aggiungiamo noi. Tutti, o quasi, ne hanno sentito parlare. In pochi, però, hanno varcato quella soglia. Per farcela, è necessario diventare clienti affezionati Mag Cafe sui navigli (Ripa di Porta Ticinese 43)
Questo club meneghino, ispirato all’America del proibizionismo e dall’indirizzo segreto, è un luogo ideale per scavare nel rapporto tra amari e mixology. Uno dei motivi? EUROPA, la nuova drink list del 1930 ispirata all’invenzione della stampa, vanta al suo interno un drink chiamato Triaca, cocktail amaro che punta a consolidarsi come rivisitazione dell’Hanky Panky.
Creato attorno al 1920, l’Hanky Panky è il primissimo drink a base di amaro, composto da gin, vermouth e Fernet. Quest’ultimo, secondo Celli «è uno dei pochissimi amari commerciali che si può definire tale, in quanto super bitter e con pochissimo zucchero». I libri di teoria, infatti, indicano che un amaro con la “A” maiuscola deve avere al massimo il dieci per cento di zucchero, ma nei supermercati ci sono prodotti che arrivano anche al trenta o quaranta per cento. Farmily Group, che gestisce il 1930 e altri cocktail bar milanesi (uno di questi è l’Iter, in via Fusetti), ha anche creato e prodotto l’Amaro Farmily, un botanical bitter dai sentori di fave di cacao e caffè tostato che donano alla bevanda un gusto morbido e avvolgente.
Vedere gli amari nella mixology non è quindi una novità. Non siamo di fronte a una nuova tendenza, anche se negli ultimi anni si nota un po’ più di movimento e di spirito creativo. Nella mentalità degli italiani, però, questo connubio fatica a consolidarsi: «Da noi è diverso rispetto all’estero. Siamo abituati a bere l’amaro dopo cena, addirittura con ghiaccio: è un approccio difficile da cambiare soprattutto per la nascita dell’amaro in sé, che tecnicamente andrebbe bevuto prima dei pasti per “preparare” lo stomaco».
Questa mentalità così ancorata alle abitudini e alle tradizioni, secondo Daniele Celli, ha un impatto anche sulla formazione degli aspiranti bartender: «Nelle scuole si dà molta più importanza ai distillati principali come vodka, gin, rum, whisky. Gli amari, secondo me, vengono un pochino messi da parte, ma ovviamente non parlo a nome di tutte le scuole di formazione. Rimane il fatto che si può fare di più per esaltare la storia italiana: abbiamo veramente tanti amari e il resto del mondo ce li invidia».