Paradosso ItaliaI neolaureati sono in aumento, ma gli stipendi non crescono

Il rapporto AlmaLaurea su studio e lavoro dei giovani rivela che sebbene i titoli di studio siano d’aiuto nella ricerca del lavoro, a causa dell’inflazione si è interrotta anche quella crescita lenta del potere d’acquisto che aveva caratterizzato gli ultimi anni

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È un paradosso tutto italiano, quello di un Paese in cui i laureati sono pochi ma avere un titolo di studio paga comunque meno che altrove. È una delle recenti rilevazioni del XXV Rapporto AlmaLaurea sul profilo e sulla condizione occupazionale dei laureati, che ha analizzato i dati dei giovani che hanno terminato il loro percorso di studi in oltre settanta atenei italiani.

«La laurea paga, ma non abbastanza. Aiuta a trovare lavoro, ma gli stipendi lo scorso anno sono aumentati soltanto in termini nominali. A causa dell’inflazione hanno perso tra il quattro e il cinque per cento in termini di potere d’acquisto, interrompendo la crescita lenta che aveva caratterizzato gli ultimi anni», scrivono Gianna Fregonara e Orsola Riva sul Corriere della Sera, riprendendo il report di Almalaurea.

In Italia i laureati sono pochi, appena il ventinove per cento di giovani laureati – penultimo posto nel ranking europeo, Francia e Spagna sono al cinquanta per cento, per fare un esempio. Quanto meno aumentano i tassi di occupazione: a un anno dalla laurea lavora il 75,4 per cento di chi ha la triennale e il 77,1 dei magistrali, mentre a cinque anni dal diploma, rispettivamente il 92,1 e l’88,7 per cento lavorano. E sono in aumento anche i contratti a tempo indeterminato, ma calano gli stipendi in termini reali: la retribuzione mensile netta a un anno dal titolo è pari in media a 1.332 euro per i laureati di primo livello e a 1.366 euro per quelli di secondo livello (meno quattro e meno cinque per cento, rispettivamente. A cinque anni dal titolo, diventa 1.635 euro per i laureati triennali e 1.697 euro per i magistrali (meno 2,4 e meno 3,3 per cento rispetto al 2021).

«L’indagine evidenzia un altro fenomeno che ormai sembra inarrestabile», si legge sul Corriere. È la fuga degli studenti e futuri lavoratori dal Sud: «Un addio amaro, spinto anche dalla mancanza di investimenti e di politiche adeguate a trattenere il capitale umano proprio in quelle regioni che più ne avrebbero bisogno». Dopo la battuta d’arresto dovuta alla pandemia e alla possibilità di seguire i corsi a distanza, «quella che eufemisticamente si chiama la “mobilità per motivi di studio”», scrive il Corriere, «ha ripreso a drenare giovani dalle regioni meridionali: quasi uno studente su tre (28,6 per cento) fa le valigie. In dieci anni la percentuale è salita di oltre il venti per cento (era il 23,2 nel 2013). La mobilità per motivi di lavoro è anche più pronunciata: se ne va uno su tre (33,3 per cento) tra i laureati di primo livello e uno su due (47,5 per cento) di quelli con diploma di laurea magistrale, con un incremento del due per cento rispetto al 2021. Dalle regioni del Nord parte invece soltanto tra il cinque e il sei per cento dei giovani laureati, più della metà dei quali diretti all’estero».

Una triste conferma è anche quella che riguarda il gender gap, divario di genere: gli uomini percepiscono in media settanta euro netti in più al mese e hanno l’11,7 per cento di possibilità in più di essere assunti. Le laureate continuano a essere in netta maggioranza (59,7 per cento), ma diminuiscono fra primo e secondo livello e si fanno sorpassare dagli uomini nel passaggio al dottorato (49,1 per cento).

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