Milano, 1814La Lombardia tradita da Napoleone e una sommossa sotto casa di Manzoni

Eleonora Mazzoni racconta per Einaudi un personaggio trasgressivo, lontano dalla figura impolverata e un po’ bigotta che a volte si spiega a scuola, intrecciando le pagine dei “Promessi sposi” con una biografia costellata di slanci, delusioni cocenti e amori

Duomo di Milano su cui incombe un temporale
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Piove a dirotto. La calca davanti al senato ringhia, i nobili e i borghesi sotto le loro ombrella di seta, la marmaglia inzuppata. Le carrozze scaricano le alte cariche del Regno d’Italia. Che è appena caduto. Napoleone ha abdicato pochi giorni fa. Un miscuglio di fischi, imprecazioni e bestemmie si alzano contro i ministri. Che non sono piú niente. Come finora per loro non è stato niente il popolo.

Carne da macello, tutt’al piú. Non lo capite che sono le vostre guerre ad averci portato la fame? Il sangue non concima, non nutre, non irriga. Dovreste avere piú considerazione per i contadini che raccolgono il frumento per i vostri pani bianchi, e la segale per i nostri piú scuri, come piú scura è la nostra pelle rispetto alla vostra.

Il ministro delle Finanze è l’unico che non arriva. Da nove anni Giuseppe Prina succhia soldi ai milanesi. Nove anni di tasse. Sempre piú tasse. E loro, con la pancia vuota, pronti a sborsare una valanga di soldi. Per mantenere la corte degli odiati francesi. E i burocrati. E l’esercito. E quei ventisettemila soldati appena spediti in Russia.

Liberté, égalité, fraternité, fransé in carrozza, i milanes a piè? Via il giogo straniero. Via le imposte. Evviva l’indipendenza italica. L’enorme folla di persone s’infervora sempre di piú, ribolle di fiele, sotto l’acqua che cade fitta da un cielo che sembra una lastra di metallo.

Ma il ministro delle Finanze continua a non arrivare. Forse è già dentro al senato. La furia cresce, monta, s’impenna, preme con forza il portone, lo sfonda, dilaga nelle sale. Il conte Federico Confalonieri è il piú scalmanato. Ce l’ha con Napoleone. E anche con il suo viceré. Eugenio di Beauharnais gli corteggia la moglie. Teresa Casati ed Eugenio di Beauharnais hanno una tresca, si cicala in giro. Si cicalano tante cose.

Anche che l’unico figlio della Casati e di Confalonieri sia morto perché al padre, che lo lanciava in aria per gioco, gli è sfuggito di mano. O perché, per temprarlo, gli ha dato una punizione troppo violenta. Non aveva ancora compiuto sei anni. Com’è, come non è, Confalonieri ha già preparato una petizione per chiedere uno Stato lombardo, monarchico e liberale.

L’ha firmata pure Alessandro. Entrambi sperano che l’antica italica brama possa dai potenti essere intesa. E intanto Confalonieri agguanta il solenne ritratto di Napoleone dell’Appiani, con la sua bella corona di re d’Italia in testa. Napoleone è in cammino verso l’isola d’Elba. Lui squarcia il quadro, seguito da una massa di persone che fracassa tutto il senato.

Qualcuno però dice che il ministro Prina non è lí. Dov’è il grande colpevole? Della povertà. Della miseria. Della schiavitú. Alla casa del Prina! Di corsa, febbrili, concitati, come un fiume in piena, gli insorti si dirigono a Palazzo Sannazzari. Lí Prina si sente al sicuro. Era stato avvertito dei possibili tafferugli. Aprite! Prina è alla scrivania. Legge la grammatica inglese. È fiducioso, la polizia è sua amica.

Aprite, aprite! Il rimbombo dei colpi lo riscuote. Un vecchio mal vissuto mostra una spranga di ferro, mentre agita in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi. Aprite, aprite! Anzi. No. Avanti. Sfondiamo la porta. E poi lo inchioderemo qui, su questo battente.

Prina comincia a tremare. Lo scalpiccio dei cavalli della guardia reale per un attimo lo rassicura. La moltitudine si dilegua. Sí, il popolo milanese è sempre stato un fuoco di paglia, buono a ribellarsi a parole. Ma ai fatti. I dragoni procedono dritti, però, e se ne vanno. E il questore è introvabile. Le guarnigioni oggi sono quasi tutte fuori città. La gente ritorna all’assalto.

La casa di Alessandro si trova a pochi passi da quella del Prina. Alessandro lo sente il tumulto. Le urla. I cervelli cotti dall’ira. Il rumore assordante. Finché Palazzo Sannazzaro è invaso. Sono sradicate le porte, fracassati i vetri, levate persiane e inferriate, rubati vasi, utensili, quadri. Tolti cardini, chiodi, grondaie. Sollevati i pavimenti e le tegole del tetto. Cercate. Frugate.

Avrà nascosto un tesoro là sotto. Il torrente penetra per tutti i varchi, ma no. Cento lire, trovano solo cento lire. Continuano lo stesso la razzia. Prina! L’affamatore! Lo vogliamo! Vivo o morto! Ed eccolo, finalmente, dentro la cappa del camino lo afferrano, lo stanano, lo azzannano, lo sbranano. Gli strambellano la camicia e il resto, e così, nudo, lo percuotono, lo calpestano, lo trascinano giú per le scale, lo gettano da una finestra in strada.

Purtroppo non muore. Fosse morto. Invece è ancora cosciente. Sfracellato e cosciente. Si rialza. Mettersi in salvo, pensa. Di fronte sta una bottega di vini. Il proprietario è sulla porta. Prina si imbuca dentro. La porta si richiude alle sue spalle.

Alessandro non esce di casa. Non si affaccia come invece ha fatto l’oste. Il cuore gli pompa in gola al ritmo di una corsa di puledri. Ascolta, terrorizzato, quei frenetici che da fuori minacciano di appiccare fuoco al negozio di vini. È Prina che non vuole arrecare danno al suo benefattore e si offre alla ferocia. Gocciola sangue ma parla. Scongiura che gli lascino la vita.

Resta tra le sue quattro mura, Alessandro. La forza gli è scivolata fuori dal corpo. Non si batte per strappare il ministro dalle mani degli accecati di collera. Come fa invece Ugo Foscolo. Che grida: Consegniamolo a un tribunale! A un carnefice solo! Piú legale e piú pratico del mestiere!

Alessandro è assalito da un’angoscia crudele. Sa che è una rivoluzione saggia e pura, quella del popolo milanese, ma sa anche che alcuni non si fermeranno. Che snatureranno quel moto legittimo e politicamente necessario. Infatti non si fermano.

La lotta riprende con pugni, calci, ombrelli, bastoni. Anche perché si può sopravvivere se ti tolgono gli occhi. Si può. Si può sopravvivere se la carne è straziata. E gli arti maciullati. Si può. Quattro sono. Le lunghe, atroci ore. Prima che il corpo finalmente a terra, irriconoscibile, giaccia morto. A ricordo dell’eterna oscillazione delle fortune umane.

Passa una manciata di giorni e l’esercito austriaco entra a Milano. Anche la villa del Caleotto e quella di Brusuglio sono invase dai soldati. Palazzo Sannazzari è raso al suolo. Diventa una piazza. È il vuoto che nasce dopo un pieno di rabbia. Per il resto tutto torna come prima. Peggio di prima.

Da “Il cuore è un guazzabuglio” di Eleonora Mazzoni, Einaudi, 168 pagine, 14 euro.