I risultati delle elezioni amministrative sono un campione troppo piccolo e troppo particolare per un allarme troppo grande e troppo generale, come quello per l’avvento di un nuovo regime, trascinato dall’onda nera del potere meloniano. Non è che manchino ragioni per diffidare della cultura democratica della destra italiana, disseminata (neppure solo nelle fila di Fratelli d’Italia) di cimeli ideologici del post-Ventennio e affascinata dalle mitologie nostalgiche, che gli intellettuali missini già quarant’anni fa definivano «incapacitanti» e i riflussi e deflussi della storia politica nazionale hanno invece riabilitato, riconsegnando loro un’inedita forza propulsiva.
Nella stagione delle passioni tristi e degli aneliti frustrati di rivalsa, una certa fascisteria di modi e di pensieri non contrassegna più un orgoglio eroicamente minoritario – quale era quello della destra missina – ma i sentimenti di vaste maggioranze passive-aggressive, persuase che un po’ di sano manganello, materiale o immateriale, non farebbe male ai nemici e ai traditori della Patria e farebbe benissimo alla Patria, infestata di parassiti o svenduta allo straniero.
Quel che però non si può dire è che questo fascismo, con o senza virgolette, sia appannaggio esclusivo della destra e non abbia avuto e non conservi zelatori e campioni anche altrove. Da Mani Pulite all’antipolitica, il fascismo italiano, inteso proprio gramscianamente come «sovversivismo delle classi dirigenti», ha avuto zelatori e interpreti innanzitutto nelle file di quella sinistra in orbace, che fremeva per il repulisti giudiziario e per la rottamazione della democrazia parlamentare.
È stata la sinistra, molto più della destra, prima solo sfigata e poi berlusconiamente affaristica, che ha provato incessantemente a inseguire, reclutare, blandire o inglobare gli eroi senza macchia e senza paura – capipopolo, boia e guaritori in una sarabanda di divise, toghe e laticlavi – che promettevano di risarcire i torti subiti dai cittadini con il sangue della Casta, con la stessa retorica dell’onestà, del servizio al popolo, del “non guardiamo in faccia nessuno”, di cui oggi anche i patrioti della destra abusano in modo grottesco, ma meno squadristico del capo del non partito che scalò il cielo della politica promettendo di “spazzare via la spazzatura dei partiti” e di trasformare il processo al Palazzo in uno «sputo digitale».
Questo fascismo secondo-repubblicano anti-regime e sempre dichiaratamente antifascistico, così presente nell’album di famiglia della sinistra dell’ultimo trentennio, ha avuto i suoi Amerigo Dumini e i suoi Roberto Farinacci, ma anche i suoi Giuseppe Bottai e i suoi Alberto Beneduce, i suoi teppisti ma anche i suoi civil servant, tutti oggi spiazzati dalla rimonta di un fascismo più tradizionale e incline alla mitografie della destra nera, ma convergente con quell’altro nell’idea che la forma politica obbligata dell’Italia sia il rapporto tra una piazza e un balcone e lo scambio tra la credulità e la menzogna.
Il fascismo in Italia è sempre una minaccia, sia chiaro, ma proprio perché è una forma di antropologia politica e non solo di ideologia ed è quindi pervasivamente, se così si può dire, pluralista.