Tra i dossier più importanti e delicati sulla scrivania della presidente del Consiglio Giorgia Meloni vi è quello riguardante il memorandum d’intesa con la Cina per lo sviluppo della Belt and Road Initiative. Sottoscritto nel marzo 2019 dal primo governo Conte, tale accordo pone oggi l’Italia sotto la pressione degli alleati del G7 affinché il nostro paese non lo rinnovi. Decisione che dovrà essere presa entro fine anno. Alla luce dei gravi danni economici, finanziari e ambientali che questa insidiosa iniziativa cinese ha provocato in gran parte dei paesi coinvolti, il governo italiano si è detto non intenzionato a rinnovare l’accordo, che risulta utile solo a esaudire le aspirazioni egemoniche della Cina.
In questo primo quarto del ventunesimo secolo, la Cina si è estroflessa dai suoi confini e dalla sua storica area di influenza come mai prima: massiccio aumento degli investimenti all’estero, picco storico delle esportazioni in tutto il mondo, nuove relazioni diplomatiche, consolidamento di quelle esistenti, espansione e potenziamento dei partenariati commerciali, inedite alleanze geopolitiche. Uno slancio su più fronti che delinea il profilo di una superpotenza con spettro d’azione globale, che si percepisce e vuole essere percepita come pronta alla sfida per l’egemonia contro l’Occidente, e in particolare, contro l’altra superpotenza globale, gli Stati Uniti. Corollario di questo frenetico attivismo è la crescente attitudine del gigante asiatico di autopromuoversi al rango di grande mediatore nelle crisi internazionali.
Le rotte commerciali entro le quali si estrinseca questa inedita propensione verso il mondo esterno, costituiscono la Nuova via della Seta, definizione coniata dalla stessa Cina. Ma al di là della forza evocativa di tale denominazione, le differenze con l’antica Via della Seta sono sostanziali. In primo luogo, da un punto di vista geografico. Infatti, sebbene l’antica rotta commerciale che collegava gli estremi di Europa e Asia rappresenti oggi l’innervatura centrale della Nuova via della Seta, quest’ultima va ben oltre, sia ramificandosi ulteriormente a livello terrestre sia comprendendo anche rotte marittime.
Ma la differenza più importante risiede nel significato geopolitico della Nuova via della Seta. Essa, infatti, non rappresenta soltanto l’ampliamento o il potenziamento di antiche vie commerciali, bensì costituisce le fondamenta e al contempo la rampa di lancio di un’ambiziosa e aggressiva strategia di lungo respiro. Negli auspici di Pechino, il piano dovrebbe portare alla creazione di un nuovo assetto geopolitico globale in cui la Cina andrebbe a sostituire gli Stati Uniti come prima potenza mondiale, assumendo quindi il ruolo di paese guida del mondo. Indispensabile passo intermedio per la realizzazione di questo progetto è la divisione dell’Occidente, ossia l’allontanamento della Unione europea dagli Stati Uniti, attraverso promozione e supporto alla formazione di un blocco geopolitico euro-asiatico.
Ed è qui che entra in gioco la Belt and Road Initiative (BRI). Una rete di rotte commerciali terrestri e marittime volta ad ampliare e potenziare i collegamenti tra Cina, il resto dell’Asia, Europa e Africa. Un gigantesco progetto infrastrutturale intercontinentale, il più grande mai immaginato, finanziato da una pioggia di denaro cinese, con la compartecipazione in piccolo dei singoli paesi coinvolti. La BRI sarebbe stata quindi la strategia decisiva per una globalizzazione interamente made in China. Uno strumento con cui il gigante asiatico, sotto le proprie insegne, avrebbe “unito” tre continenti, facendone un unico grande spazio commerciale, sul quale avrebbe poi signoreggiato. Come scriveva polemicamente Wade Shepard su Forbes nel 2020, ossia a sette anni dall’avvio del progetto, tutto questo, almeno in teoria, avrebbe dovuto porre la Cina «al vertice della catena alimentare geoeconomica, fornendo al contempo vantaggi reciproci ai partecipanti».
E all’inizio era tutto un fiorire di titoloni trionfalistici: «Mille e più miliardi di dollari» messi sul tavolo, che poi diventavano «cinque trilioni di dollari», per un progetto che «copre sessantacinque paesi» e soprattutto «il sessanta per cento della popolazione mondiale» e non solo, anche «il settantacinque per cento delle risorse energetiche e il trenta per cento del PIL». Il tutto ampiamente corredato di grafici di bell’aspetto e assai dettagliati. Ma dietro questo zampillare di cifre e dati mirabolanti, vi era la vaghezza più assoluta su ogni aspetto di un progetto titanico che avrebbe dovuto cambiare la storia mondiale e la vita di miliardi di individui. Sempre Shepard si chiedeva cosa fosse davvero questa BRI: «È un termine generico per tutte le attività economiche, sociali e politiche cinesi all’estero? È un insieme specifico di politiche coordinate che è esclusivo degli sforzi internazionali guidati da Pechino? Quali progetti sono ufficialmente Belt and Road? Dove vanno effettivamente i corridoi? Quali paesi stanno realmente partecipando?» Secondo Plamen Tonchev, Capo dell’unità Asia dell’Istituto per le relazioni economiche internazionali di Atene, «si tratta più di una serie di progetti vaghi realizzati sulla base di un approccio frammentario». E aggiunge che «Pechino deve ancora offrire una definizione chiara di ciò che costituisce un progetto BRI».
L’assoluta mancanza di trasparenza è stata infatti un punto debole fin da subito. Solo che, nelle prime fasi, l’euforia, alimentata artificialmente da una campagna mediatica imponente, aveva anestetizzato tanto ogni forma di controllo da parte delle realtà coinvolte quanto l’attenzione critica di osservatori terzi. Era tutto così inebriante che quasi nessuno si è chiesto se fosse normale il fatto che non fossero noti degli indicatori chiave di prestazione (KPI, Key Performance Indicator), che non risultasse nessuna carta fondativa, nessun protocollo formale di adesione, nessuna tempistica riguardo allo sviluppo. Ma poco tempo dopo il roboante esordio del 2013, il meccanismo aveva già iniziato a incepparsi, provocando tra i vari paesi coinvolti forti delusioni, tensioni, divisioni, danni economici e ambientali. Fino alle prime defezioni da parte di un numero via via crescente di paesi membri. Con un effetto a cascata irruento, il precoce crollo dell’entusiasmo ha prodotto ulteriore incertezza, poi scetticismo, infine vera e propria sfiducia.
In Sri Lanka si ha la prima impasse con risonanza mondiale della BRI. L’accordo tra la Cina è l’ex presidente srilankese, Mahinda Rajapaska, prevedeva la costruzione di una serie di mega-progetti infrastrutturali a Hambantota, una regione ampiamente sottosviluppata situata sulla costa meridionale dello Sri Lanka. Come primo step di questo maxi progetto era prevista la realizzazione di un nuovo porto in acque profonde, un aeroporto, uno stadio, un gigantesco centro congressi e molti chilometri di nuove strade. I fondi necessari sono stati stanziati quasi interamente dalla Cina. Il prestito di cui ha usufruito lo Sri Lanka era di tale entità che quasi da subito è stato evidente che il paese non sarebbe mai stato in grado di rimborsare i fondi. Risultato: la Cina sequestra il settanta per cento del nuovo porto di Hambantota, per la cifra di 1.12 miliardi di dollari, ottenendo di detenerne il possesso per i successivi 99 anni. Gli osservatori internazionali inizieranno a chiamare questo meccanismo «diplomazia della trappola del debito».
Quanto è avvenuto in Sri Lanka è infatti un modello che si è ripetuto molte volte durante la fase di espansione della BRI. E non deve sorprendere la facilità con cui è avvenuto ed è stato reiterato. Una delle caratteristiche della BRI, su cui in tanti hanno ampiamente sorvolato, è infatti quella di aver concluso gran parte degli accordi con paesi il cui rating era classificato come “spazzatura”. «Fare grandi affari con paesi come Pakistan, Sri Lanka e Malesia ha mostrato la propensione iniziale della Belt and Road a puntare sulla quantità piuttosto che sulla qualità, sull’opportunità piuttosto che sulla trasparenza, e le reazioni di questa strategia sono state rapidamente avvertite in tutta la rete», sottolinea Shepard.
Per un paese, avere un rating spazzatura vuol dire inesorabilmente ampia vulnerabilità delle proprie istituzioni a fenomeni di grave corruzione. Nel caso dello Sri Lanka, vediamo che l’ex presidente Mahinda Rajapaska deve affrontare accuse di irregolarità finanziarie. Avrebbe autorizzato l’utilizzo di larga parte del denaro preso in prestito dalla Cina per rafforzare le riserve estere del paese e per rimborsare altri debiti esteri, al fine di scongiurare il collasso economico. Tutto questo rappresenta uno schema che, con alcune variazioni sul tema, si è registrato in molte altre situazioni inerenti al contesto BRI, dal Pakistan alla Malesia.
Da parte della Cina, la tendenza a indirizzare i prestiti verso Paesi destinati all’insolvenza appare una come una vera e propria strategia di conquista degli stessi per via finanziaria. E la BRI risulta essere lo strumento principale di questa strategia. Un indizio molto forte risiede nella dinamica temporale dei prestiti cinesi all’estero. Bradley Parks, direttore esecutivo del gruppo di ricerca AidData presso il College of William and Mary, afferma che «nel 2022, il sessanta per cento dei prestiti all’estero della Cina è andato a mutuatari in difficoltà finanziarie, rispetto a solo il cinque per cento nel 2010». Questo significa che, con l’inizio della BRI (2013), l’erogazione di questo tipo di prestiti è aumentata di circa il cinquantacinque per cento. In questo modo, a tante imprese truffaldine è bastato fregiarsi del marchio BRI per avere mano libera e accaparrarsi cifre cospicue in forma di prestiti, da usare poi a piacere, prima di fallire strategicamente. La Cina sarebbe poi passata a raccogliere “i frutti” delle insolvenze, sotto forma di controllo diretto di pezzi di territorio dei paesi accalappiati dalla trappola del debito.
Testimoni e a loro volta coinvolti in questo meccanismo spietato, Bangladesh, Malesia, Myanmar, Pakistan e Sierra Leone hanno optato per un forte ridimensionamento di molti dei loro progetti Belt and Road, quando non all’annullamento. Questo sentimento si è poi inesorabilmente trasmesso all’Europa, facendo aumentare il già elevato scetticismo delle aziende europee potenzialmente interessate ai progetti BRI. Il colpo di grazia alle aspirazioni cinesi di far entrare la BRI come un cavallo di Troia in Europa arriva da un rapporto stilato dalla Camera di Commercio dell’Unione Europea in Cina.
Come riporta Jens Bastian per Reconnecting Asia, dal rapporto si evince come vi sia «mancanza di trasparenza e possibilità di accesso tempestivo alle informazioni per le imprese europee che cercano di partecipare a gare d’appalto relative a progetti BRI in Cina. La mancanza di procedure di gara e appalto trasparenti costituisce un ostacolo ricorrente alla partecipazione delle imprese europee interessate». E ancora: «laddove la BRI si avventura al di fuori della Cina con progetti di sviluppo infrastrutturale su larga scala, le autorità cinesi o locali nei paesi ospitanti assegnano regolarmente la maggior parte delle gare d’appalto pubbliche (a condizione che ne sia avvenuta una) a imprese statali cinesi integrate verticalmente». Infine: le società statali cinesi forniscono un kit completo di strumenti per progetti infrastrutturali, che vanno dal finanziamento ai materiali da costruzione, dai servizi alla manodopera. Inoltre, tali società statali sono caratterizzate da ampie disposizioni in materia di aiuti di Stato e dall’organizzazione di prestiti a basso costo da parte delle banche statali cinesi. Ciò consente loro di presentare livelli di prezzo eccezionalmente bassi durante il processo di gara.
Una dinamica che ha avuto come epilogo due effetti decisamente esplicativi della situazione attuale. Uno è il drastico calo degli investimenti esteri della Cina, quale conseguenza dello stop di molti progetti da parte dei paesi coinvolti. Con un tonfo nell’ultimo anno. In un rapporto pubblicato a fine gennaio da The Green Finance & Development Center (Gdfc), un think tank legato alla Fudan University of China, si legge infatti che «gli investimenti cinesi in Africa sub-sahariana nell’ambito del progetto della Nuova via della Seta sono diminuiti del sessantacinque per cento nel 2022 rispetto al 2021». Il rapporto afferma inoltre che anche «i contratti di costruzione di infrastrutture finanziati da prestiti cinesi nella regione sono diminuiti del quarantaquattro per cento nell’ultimo anno». Un drastico decremento degli investimenti esteri cinesi si è registrato anche in Asia occidentale. Mentre nell’Asia orientale gli investimenti sono aumentati. Prova macroscopica che il tentativo di estroflessione della Cina dalla sua tradizionale area di influenza, mediante la BRI, ha subito un brusco rallentamento, per meglio concentrarsi su aree più prossime ai confini nazionali.
L’altro effetto consiste nella grave e ormai innegabile perdita di appeal dell’intera operazione. Da cui, la decisione di cambiarne progressivamente il nome (sic!). Scrive Seema Guha sul magazine Outlook Business: «La Cina non ha abbandonato i suoi piani, ma sta cercando di rinominarli, a causa della pubblicità negativa associata ai progetti infrastrutturali negli ultimi cinque anni. I piani BRI sono stati criticati nel mondo per mancanza di trasparenza, per aver trascinato le nazioni più povere nella trappola del debito e per aver provocato danni ambientali». Al posto di Belt and Road Initiative, continua Guha, «i leader cinesi ora preferiscono parlare di Global Development Initiative».. E ancora: «Il presidente Xi non ha menzionato la Belt and Road Initiative nei discorsi dal 2022. A parte una sporadica menzione sul promuovere la cooperazione Belt and Road di alta qualità, non ha usato la denominazione BRI in nessun discorso importante, incluso quello tenuto alle Nazioni Unite»..
Il governo Meloni ha dunque una sola scelta da fare: proteggere il Paese, contribuendo a proteggere l’Europa. Quindi, non rinnovare il memorandum d’intesa con la Cina per la BRI, sciaguratamente siglato dal primo governo Conte.