Il suono della sciabola contro la testa del padre lo assordò. Prima di finire dentro una pozza d’acqua, Samson intravide comunque con la coda dell’occhio il lampo improvviso della lama. Era stato il padre, già cadavere, a spingerlo da parte, e proprio per quella spinta la sciabolata seguente non si era abbattuta sulla sua testa fulva, ma nemmeno lo aveva mancato: gli aveva tranciato di netto l’orecchio destro che lui, però, cadendo dentro il canaletto lungo la strada, aveva fatto in tempo ad acchiappare al volo allungando una mano. Il tutto mentre suo padre si schiantava sul selciato con la testa spaccata in due e lo zoccolo ferrato di una zampa del cavallo lo schiacciava a terra. A quel punto chi era in groppa aveva dato di sprone alla bestia, lanciandola al galoppo, e altri passanti (una decina) si erano gettati anch’essi ai lati della via, consapevoli di quanto poteva accadere pure a loro: dietro a quel cavaliere ce n’erano altri cinque.
Samson non li vide. Addossato alla curva del fosso, si reggeva col palmo sinistro al terreno bagnato e col destro si teneva la testa. Sotto la mano la ferita gli bruciava di un bruciore fragoroso, sonoro, come di martello che si abbatte su una rotaia d’acciaio. Caldo, il sangue gli colava lungo lo zigomo fin sul collo, infilandosi dentro la camicia.
Cominciò a piovigginare. Samson alzò la testa. Guardò Capitolo 1 8 la strada. Vide il piede del padre. Vide la suola, anzi, che era rivolta verso di lui. Gli stivali inglesi con i bottoni blu scuro erano impeccabili persino sporchi di fango. Il padre li portava con cura estrema da sei anni a quella parte. Dal 1914, quando un commerciante del viale principale di Kiev, il Kreščatik, aveva abbassato drasticamente i prezzi, giustamente convinto che la guerra non fosse l’ideale per gli articoli di lusso.
Non lo voleva vedere, Samson, suo padre morto e con la testa spaccata. Per questo arretrò strisciando lungo il fosso con l’orecchio stretto nel pugno. Una volta sulla strada, per un po’ nemmeno riuscì ad alzarsi in piedi. Rimase lì, magro e curvo, imponendosi di non voltarsi a guardare. Poi fece un paio di passi e inciampò in un altro cadavere. Lo scavalcò, e di nuovo un rumore tremendo si abbatté su di lui, riverberandogli in testa e infilandosi come stagno bollente nel buco dell’orecchio mozzato. Samson premette il palmo contro la ferita sanguinante, quasi volesse tapparla e soffocare il tuono che gli era esploso nel cranio, e corse via. Via, di corsa, ovunque. Anche solo per la strada da cui erano arrivati lui e suo padre: verso casa, verso la Žiljanskaja. Tra i boati e il rumore sentì alcuni spari isolati, che però non lo fermarono. Correva lasciandosi dietro donne e uomini confusi che si guardavano intorno anche loro senza riuscire a muovere un passo. Ma proprio quando cominciava a rendersi conto di non poter proseguire oltre perché le forze gli venivano meno, i suoi occhi furono attirati dalla grande insegna all’ingresso di un palazzo a due piani: DR. N.N. VATRUCHIN. MALATTIE DELL’OCCHIO.
Corse al portone e allungò la mano libera per tirare la maniglia. Era chiuso. Bussò.
«Aprite!» attaccò a gridare. E ci si avventò con i pugni. «Cosa vuole?» disse da dentro la voce spaventata di una vecchia.
«Devo vedere il medico!»
«Nikolaj Nikolaevič oggi non riceve!»
«Deve ricevermi! È un medico, non si può rifiutare!» insistette supplicando Samson.
«Tonečka, chi è?» risuonò più distante una voce profonda, baritonale.
«Bussano dalla strada!» rispose l’altra.
«Fa’ passare!»
La porta si aprì appena. Dallo spiraglio l’anziana donna vide Samson coperto di sangue, lo fece entrare e subito richiuse il portone con tanto di lucchetto e doppio catenaccio.
«Dio mio! Chi è stato?»
«I cosacchi. Dov’è il medico?»
«Venga con me!»
Capelli grigi e barba perfettamente rasata, Vatruchin studiò la ferita e la curò senza fiatare, applicandovi un tampone intriso di pomata e fasciando poi la testa. Rasserenato almeno un po’ dal silenzio che regnava nella stanza, Samson guardò il medico con quieta riconoscenza e aprì il pugno destro. «Esiste un modo per riattaccarlo?» chiese con un filo di voce. «Non saprei dirglielo» scosse la testa l’altro, mesto. «Io curo le malattie degli occhi. Chi è stato a conciarla così?»
«Non lo so» rispose Samson con un’alzata di spalle.
«I cosacchi.»
«L’anarchia rossa!» sbottò Vatruchin, e aggiunse un sospiro pesante. Poi andò al tavolo, rovistò nel cassetto in alto, prese il portacipria che c’era dentro e lo porse a Samson. Lui alzò il coperchio: era vuoto. Il medico staccò un ciuffo di ovatta e lo piazzò sul fondo della scatolina. Samson ci posò sopra l’orecchio, richiuse il coperchio, mise tutto in tasca e alzò gli occhi sul dottore. «Mio padre è rimasto là» sospirò pesantemente. «Per strada. Ammazzato.» L’altro schioccò le labbra dispiaciuto e scosse la testa. «Per strada non ci si può più stare, ormai…» disse, e allargò le braccia sconsolato. «Cosa intende fare?» «Non lo so. Dovrei portarlo via…» «Soldi ne ha?» «Li aveva lui nel portafogli! Stavamo andando dal sarto a ritirare un abito.» «Venga» disse Vatruchin indicandogli la porta. Le strade erano deserte.
In lontananza si udiva qualche colpo di fucile. Sulla città e il suo sangue il cielo era bassissimo, quasi che per la notte intendesse coricarsi fra tetti e cimiteri. Quando arrivarono sulla Nemetskaja, là dove i cosacchi avevano attaccato Samson e suo padre, videro due carri e una decina di uomini. Alcuni cadaveri erano già stati issati su un carro; il padre di Samson era ancora sul ciglio della strada. Scalzo, però: qualcuno gli aveva sfilato gli stivali inglesi con i bottoni.
Samson si chinò sul corpo cercando di ignorare la testa. Infilò la mano sotto la giacca, tastò il portafogli nella tasca interna. Lo prese. Era stranamente gonfio, e se ne stupì. Lo ripose in una tasca della sua giacca, si alzò in piedi e si voltò a guardare i carri.
«Bisogno?» gli chiese un tale. Aveva in mano le briglie di un cavallo legato a un barroccio ancora vuoto.
«Sì» disse Samson, e guardò il medico. «Qual è l’impresa funebre più vicina?» chiese Vatruchin all’uomo del carro.
«Il primo è Gladbach» rispose l’altro. «I soldi ce li ha? Soldi veri, non i karbovantsy.»
«Ho i kerenki» disse il medico.
«Quelli vanno bene» annuì l’altro.
«Vi aiuto a caricarlo, che vi sporcate tutti.»
Samson si guardò i pantaloni e la giacca – già lerci – e si chinò anche lui sul corpo del padre. Quell’11 marzo del 1919, martedì, fu il giorno in cui sulla sua vita passata venne tirato un bel frego.
Da “L’orecchio di Kiev” di Andrei Kurkov, Marsilio, 288 pagine, 19 euro