Disastro mediterraneoIl dramma ecologico e sociale degli ulivi salentini falcidiati dalla Xylella

Un singolo batterio ha causato la più grave epidemia delle piante al mondo. Una catastrofe naturale e umana raccontata da Daniele Rielli in “Il fuoco invisibile” (Rizzoli)

Lapresse

Fu sotto le alte volte della casa di paese che mio nonno, poco prima di morire, raccontò uno strano sogno. Un ulivo di una sua campagna, un grande albero che si affacciava verso la strada vicinale, era completamente bruciato. Ed era bruciato senza fiamme, come consumato da un fuoco invisibile. Mio nonno lo sapeva come si sanno alle volte le cose nei sogni, con una certezza inspiegabile ma non per questo meno rigorosa: non era stato un normale fuoco a ucciderlo ma il risultato era lo stesso.

Luigi Rielli era un uomo magro – osservava in maniera ferrea i digiuni religiosi – sempre vestito con una camicia bianca un po’ troppo larga, un gilet nero con un mezzo toscano spento nel taschino, pantaloni scuri e una coppola ben calcata in testa. Lavoratore inesauribile per tutta l’esistenza, ancora a più di ottant’anni d’età prendeva la via della campagna con la sua mula e poi, quando la mula morì, con la bicicletta. Le rare volte in cui veniva al mare si portava una sedia e metteva a malapena i piedi in acqua. Preferiva passare il tempo fra i suoi ulivi e quelli di suo padre, alberi monumentali e vigorosi; ulivi che amava potare in modo che rimanessero imponenti.

Allora nel Salento gli stili di potatura venivano commentati nelle chiacchiere di paese un po’ come oggi si commenta l’ultima notizia sportiva apparsa sullo schermo dell’iPhone. Degli alberi di mio nonno c’era chi diceva che li tenesse come fossero cattedrali, non ulivi, e credo che alle sue orecchie questa malignità suonasse come un complimento. Non era comunque uomo da soffermarsi a lungo sul parere degli altri, amava la campagna anche perché si sposava con il suo carattere solitario, fumantino, votato all’autonomia e con il vizio di dire quello che pensava anche quando poteva risultare sconveniente, il che, per quanto mi riguarda, è l’autentica ricchezza.

Negli anni Ottanta e nei primi Novanta, quando scendevo al Sud, oltre ai carretti trainati da cavalli che ancora si vedevano passare per le strade, mi colpivano i marciapiedi alti, le infilate di pomodori appesi a seccare vicino alla piccola icona scolorita di una madonna e i grandi bidoni di metallo pronti ad accogliere l’olio nuovo e a essere spediti nei nuovi avamposti, sparsi per l’Italia, della grande famiglia. Gli ulivi erano l’architrave economico della schiatta e anche quando, decenni dopo, nessuno dei figli viveva più di olio, non esisteva un solo Rielli – che si trovasse nel Salento o disperso da qualche parte nella Pianura Padana o sotto le Alpi – a cui potesse venire in mente di comprarne sul mercato.

L’olio d’oliva da quando sono nato è sempre stato solo il nostro, un prezioso liquido verde-oro che era qualcosa di quanto più simile a un’identità, univa la famiglia diffusa e ci distingueva dai consumatori di olio di semi, per noi autentici eretici esclusi da un aspetto fondamentale del saper vivere, per tacere dell’iconoclastia massima, ovvero il burro, indiscusso simbolo di appartenenza alla genia dei barbari.

Narra il mito che quando Poseidone e Atena si sfidarono per il dominio sull’Attica, il primo percosse il terreno con il suo tridente e fece sgorgare dell’acqua salata, la dea invece scelse di piantare un ulivo. Quel giorno si decise non solo che il nome della città destinata a sorgere in quel luogo sarebbe stato Atene, ma si strinse anche e soprattutto il legame tra gli antichi greci e la pianta dell’ulivo, con le sue molteplici virtù e la sua nodosa maestosità.

Nella Bibbia la fine del diluvio è annunciata dal ritorno della colomba che porta un ramo di ulivo, nell’antica Roma a Capodanno i giovani bussavano alle porte dei vicini per offrire in dono rami di ulivo. Da millenni questo albero e l’uomo vivono nel Mediterraneo una storia comune: il tronco avviluppato, segnato, ferito ma resistente ai secoli e le fronde sempre verdi sono l’allegoria di una civiltà. È un albero sacro, se mai ne esiste uno.

Dal canto mio, uno dei miei primi ricordi d’infanzia è la scena in cui mio nonno pone, con analogo intento simbolico, un me di forse tre o quattro anni – nipote frutto di incrocio con le nordiche genti – alla guida di un aratro legato a una mula in mezzo ai suoi ulivi. La situazione un po’ a sorpresa non degenera in incidente agricolo e articolo di cronaca sul «Quotidiano di Lecce», ma sopravvivo e ne scaturisce una foto.

Da qui, probabilmente, la nitidezza un po’ artefatta del ricordo. Mio nonno è morto quando avevo ventun anni, le campagne sono state divise in piccoli appezzamenti per il consumo familiare ma ancora molti anni dopo, quando i miei genitori mi hanno chiesto di impostargli una password per il wi-fi di casa, senza pensarci sopra ho proposto la parola oliocrazia e mio padre, altrettanto rapidamente, l’ha trovata perfetta. Fossimo nobili sul nostro stemma non ci sarebbero leoni, orsi, pardi o lupi, ma un ulivo secolare.

Dal lato salentino della mia famiglia esiste anche una lunga tradizione di sogni premonitori, negli anni ho sentito uomini raccontare con voci basse e solenni di incontri con diavoli e madonne. Io nasco alla fine del mondo magico, ne intuisco la capacità seduttiva ma non ho visioni notturne, sono l’anello mancante, parlo un’altra lingua. Per me durante la notte è il passato a riemergere e a trasfigurarsi assieme alle paure e ai desideri: un sogno è il parto congiunto della mente e della vita. Esiste però un singolo caso che mette alla prova le mie convinzioni ed è proprio il sogno dell’ulivo bruciato di mio nonno. Oggi i rami di quell’albero sono senza foglie, il legno è imbrunito, è uno scheletro che spunta come una cuspide nera sopra il muretto a secco che lo divide dalla strada. Non è stato un incendio a ridurlo così ma un fuoco invisibile.

Stando in piedi di fronte al tronco morto e girando lo sguardo tutto attorno, ogni altro ulivo che incontra la vista appare bruciato alla stessa maniera. Se da quel punto un drone si alzasse in volo, sotto di lui si distenderebbe un enorme cimitero vegetale che parte da Santa Maria di Leuca, il punto più a sud della Puglia, fino quasi a Ostuni, in provincia di Brindisi. Un territorio lungo centocinquanta chilometri e largo ottanta. Un’unica, quasi ininterrotta, distesa di ulivi secchi, un disastro naturale senza precedenti. Ventuno milioni di alberi, molti dei quali secolari o millenari, tutti bruciati dallo stesso fuoco invisibile.

Da “Il fuoco invisibile. Storia umana di un disastro naturale” (Rizzoli), Daniele Rielli, p. 304, 18€.

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