Cento fotografie per raccontare la vita e l’opera di un uomo che abbiamo catalogato come “provocatore”, forse troppo in fretta: è questo l’intento di Guy Bourdin: Storyteller, percorso espositivo ospitato all’interno dell’Armani/Silos. Un obiettivo di cui è lo stesso Giorgio Armani a decifrare le esatte coordinate, illustrando il perché di una scelta artistica apparentemente distante da quella che è sempre stata la sua estetica.
«Questa mostra conferma la mia volontà di fare di Armani/Silos un centro di cultura fotografica contemporanea, includendo ciò che è prossimo al mondo Armani, ma anche ciò che ne è lontano. A prima vista, Guy Bourdin non è un autore a me vicino: il suo era un linguaggio netto, grafico, forte. Nella sua opera quel che si percepisce subito, in superficie, è la provocazione, ma quello che mi colpisce, e che ho voluto mettere in risalto, sono piuttosto la sua libertà creativa, la sua capacità narrativa e il suo grande amore per il cinema. Bourdin non seguiva la corrente e non scendeva a compromessi: un tratto nel quale mi riconosco io stesso, credo non ci sia un altro modo per lasciare un segno nell’immaginario collettivo».
Che Guy Bourdin (1928-1991) non fosse capace di scendere a compromessi, è vero: classe 1928, influenzato fortemente dal surrealismo fotografico di Man Ray e da quello pittorico di Balthus e René Magritte, così come da quello cinematografico di Luis Buñuel, non smise mai di considerare la fotografia come un viatico per esprimere l’unica arte per la quale avrebbe voluto essere davvero riconosciuto: la pittura. E infatti tutte le sue opere fotografiche si contraddistinguono per un uso del colore identitario, una composizione dell’immagine che, appunto, sembra perfetta per la tela.
Imparati i primi rudimenti della fotografia, durante il servizio militare a Dakar negli anni Quaranta (come era successo ad un altro fotografo passato alla sua storia per il suo stile glamour, Slim Aarons, spedito tramite Frank Capra a scattare con la sua Leica il bombardamento a Cassino e lo sbarco ad Anzio), la sua prima mostra fu però di disegni, nel 1950, a Parigi.
Una storia, quella di Bourdin, che ha molto di cinematografico, sin dall’infanzia e dal rapporto complesso con le donne, frutto di una madre che lo aveva abbandonato e che incontrò una sola volta nella vita, reimmaginandola poi in tutte le sue fotografie, per le quali prediligeva figure femminili che le assomigliavano, tra i capelli rossi e il pallore lunare (e forse poi, chissà, erano romanzate dal rimpianto).
Cresciuto con i nonni paterni nel loro ristorante, Brasserie Bourdin, fu lì che secondo le leggende avvenne l’unico incontro fisico tra madre e figlio. Lei, che si era separata dal padre quando lui era ancora bambino, giunse lì per portargli un regalo. Le comunicazioni successive avvennero solo per telefono, tramite la cabina del ristorante dei nonni: quando Bourdin era in conversazione con la madre, la cabina, si racconta, era chiusa a chiave. Basta questo per creare una sceneggiatura degna di un film della Nouvelle Vague. Però la vita di Guy Bourdin è stata molto di più.
Il legame lavorativo con Man Ray, del quale Bourdin divenne assistente e protetto, nacque per via dell’ostinazione del secondo, che si presentò sette volte di fronte all’uscio di casa del padre del surrealismo, prima che ad aprirgli la porta fosse lui, e non sua moglie Juliet, che gli aveva chiuso l’uscio in faccia le sei volte precedenti. Ci volle poco, però, per far venire a galla tutto il talento che Bourdin celava nell’uso della sua Leica: la prima mostra fotografica nel 1953, i primi lavori per Vogue Paris solo due anni dopo.
Nella redazione del mensile di moda più famoso al mondo incrociò Helmut Newton, che invece, molto a suo agio con il ruolo di fotografo, lavorava in maniera esclusiva per la rivista. E lo stesso Newton, gran maestro della fotografia di moda, fu il primo, anni dopo, ad ammettere che il successo di quel giornale non era imputabile solo al suo talento, ma anche alla felice tempistica che permise ai due di lavorare insieme, a due occhi che non erano simili ma complementari.
«Tra i miei e i suoi lavori, il giornale divenne irresistibile» disse in un’intervista. «Se io o lui fossimo stati soli, forse non avrebbe funzionato così bene, perché in molti modi, noi ci completavamo a vicenda». Un dynamic duo, come direbbero gli americani, che nella leggenda poi si trasformò in un terzetto di artisti, la “Glamour gang” che lavorò nello stesso periodo (quello degli anni Settanta) ed era accomunato dalle stesse ossessioni, espresse in maniera differente: Chris von Wangenheim, il più giovane dei tre, iniziò infatti a lavorare nel 1969 per Vogue Italia grazie all’occhio di Anna Piaggi, attratta dalla sua capacità di incapsulare in un’immagine un glamour noir, perturbante.
Nel libro Gloss, monografia di von Wangenheim edita da Rizzoli USA nel 2015, gli autori Mauricio e Roger Padilha sottolineano un fil rouge temporale che unisce le carriere di questi tre autori: «Nelle foto di Helmut Newton c’è un senso di aspettativa, qualcosa sta per succedere. Quelle di von Wangenheim sono gli scatti del momento dell’omicidio, mentre Guy Bourdin firma le foto della scena del crimine».
Infatti, molti dei lavori di Bourdin hanno un lato oscuro, che l’occhio odierno filtrato da compromessi e pudicizia – unito all’incapacità di analizzare la complessità – potrebbe ritenere “problematico”. Le immagini che realizzava Bourdin, così come quelle di Newton e von Wangenheim, oggi troverebbero poco spazio sui giornali di moda, terrorizzati dalle “shitstorm”. Silos/Armani dimostra infatti una grande libertà artistica nell’andare controcorrente, sfidando le semplificazioni e gli assolutismi.
Bourdin scattava spesso corpi di donne nudi, ma dall’immagine traspare chiara e forte la sua concezione del corpo femminile non come oggetto di una qualunque bramosia sessuale o di una viscida lascivia, ma piuttosto la sua elevazione a feticcio, gelido e distante pur nella sua nudità. Una capacità, quella di creare ossessioni (sublimata nel suo lavoro per Charles Jourdan, maestro della calzatura francese), per il quale Bourdin realizzò delle campagne entrate nella storia – alcune in mostra all’Armani/Silos – come in Caught in the Act, nella quale si vede solo la gamba di una donna in calze rosse e slingback verdi dal tacco quadrato. E proprio con quel tacco, la donna ferma la mano di un uomo riverso sul pavimento, pericolosamente vicino ad una pistola, nel mezzo di una via centrale. Sullo sfondo, il cartellone di un cinema che ospita la proiezione del film “Caught in the act”.
In effetti c’è molto anche di cinematografico nelle foto di Bourdin (quelle in mostra all’Armani/Silos sono state selezionate da Giorgio Armani e The Guy Bourdin Estate): una passione, quella per il cinema, che lo porterà vicino alla dimensione artistica non solo del già citato surrealista Buñuel, ma anche a quella, ugualmente perturbante di Alfred Hitchcock e Stanley Kubrick, con le sue modelle spesso distese e apparentemente prive di sensi, del gesso bianco che ne contorna le sagome.
Un approccio che ha influenzato molti suoi successori, abbastanza sicuri di sé da ammetterlo, come Nick Knight, David La Chapelle, Jean Baptiste Mondino, il duo di Mert&Marcus. Per quanto riguarda gli altri, come ammise il fotografo e gallerista Michael Hoppen in un pezzo scritto da Tim Blanks sul New York Times nel 2003 (“Why we love fashion? It’s the click, click, click”) «molti fotografi parlano del loro lavoro come originale, diranno che non hanno mai copiato nessuno, ma credo che siamo tutti orgogliosi di ammettere che abbiamo copiato Guy Bourdin».
Se il lavoro di Bourdin oggi non riecheggia nelle memorie delle generazioni più giovani quanto dovrebbe, è semplicemente perché fu lo stesso artista, cocciuto e ostinato, a non voler essere ricordato (come fotografo): in vita, disse di no a tutti quelli che si offrivano di curare una sua monografia, di organizzare mostre a lui dedicate. Nel 1985 rifiutò persino il premio del ministero francese della Cultura, il Grand Prix National de la Photographie.
Ancora, quella fissazione per la pittura, arte nella quale, sempre secondo Tim Blanks sul New York Times, nonostante l’applicazione, non dimostrava lo stesso talento. «I suoi dipinti erano derivativi dei lavori di Balthus e lui lo sapeva, così come sapeva che non sarebbe mai stato bravo quanto Balthus, Francis Bacon o Stanley Spencer», scriveva il giornalista di moda.
Ossessivo, crudele con i suoi soggetti – che fossero donne o uomini non faceva differenza, come potrebbe raccontare, se fosse vivo, Serge Gainsbourg, ritratto in un canale di scolo, sempre secondo il pezzo del New York Times -, piccolo di statura e dotato di una voce nasale disturbante quanto le sue foto, non riuscì mai a risolvere il suo dramma edipico, inanellando una serie di tragiche e sfortunate relazioni.
Sua moglie Solange Marie Louise Gèze, che gli diede l’unico figlio, Samuel, morì suicida in Normandia nel 1971, forse per overdose di droghe, mentre una sua fidanzata, Sybille Dalmer, si impiccò dieci anni dopo. Nel 1991 morì di cancro, ancora, forse, incapace di venire a patti con il suo talento manuale, espresso però con lo strumento sbagliato: una macchina fotografica invece che un pennello. Eppure, quelle foto che guardano lo spettatore dall’Armani/Silos (e lo faranno fino al 31 agosto) sono qui a ricordarci quanto quella sua capacità di immaginare la vita e codificarne le ossessioni, risultino contemporanee, anche oggi, a più di trent’anni dalla sua scomparsa.