Nagu, ultimi giorni di maggio. Una folla di cittadini cinesi si scontra con un cospicuo numero di poliziotti. Il motivo? L’annunciata demolizione della cupola di una moschea. Nagu è una città montuosa a nord di Kunming, nella provincia meridionale dello Yunnan, che confina con Vietnam, Laos e soprattutto Myanmar. A Nagu la maggioranza è musulmana. In diversi video circolati sui social media cinesi si vede una folla all’esterno della moschea Najiaying, risalente al XIII secolo. L’edificio è da sempre un punto di riferimento della nutrita comunità di fede musulmana della provincia, appartenente alla minoranza Hui, uno dei cinquantasei gruppi etnici riconosciuti da Pechino.
Nella lunga e complessa storia cinese, la provincia dello Yunnan è stata già sede di una violenta ribellione della minoranza musulmana contro la dinastia imperiale Qing, a cui seguì una altrettanto violenta repressione. Negli ultimi anni, la moschea era stata ampliata con un nuovo tetto a cupola a una serie di minareti. Ma una sentenza del 2020 ha dichiarato non legali le ultime aggiunte, disponendone la rimozione. Dopo la fine delle restrizioni per la pandemia di Covid-19, le autorità sono passate all’azione, causando la reazione di diversi fedeli che in alcuni video si vedono anche tirare alcuni sassi contro la polizia. Nelle settimane seguenti, diversi manifestanti sono stati arrestati per ostruzione dell’ordine di gestione sociale.
I media di stato della Repubblica popolare hanno minimizzato l’accaduto. «Data la delicatezza delle questioni religiose, la ristrutturazione delle moschee in Cina può facilmente portare a interpretazioni errate. La vicenda sembra la conferma di una tendenza a un maggiore controllo dei gruppi religiosi. Dopo un attacco del 2014 contro i civili che causò trentuno morti in una stazione ferroviaria di Kunming, il governo cinese ha indicato i separatisti uiguri come responsabili e ha operato una prima stretta, con maggiori controlli anche sul fronte dell’istruzione religiosa.
Già nel 2018, centinaia di musulmani Hui nella regione autonoma dello Ningxia erano riusciti a impedire la demolizione di una moschea, ma le sue caratteristiche arabeggianti sono state modificate. Lo stesso anno, il Partito comunista ha emanato nuovi regolamenti sulle attività religiose, secondo i quali il personale religioso può svolgere le sue funzioni a patto di aderire agli organismi statali ufficiali.
Nel 2021, Xi Jinping si è impegnato a portare avanti la «sinizzazione della religione», in modo da «armonizzare» le fedi e organizzazioni religiose all’interno della società cinese. Nel 2022 sono invece stati introdotti maggiori controlli sui finanziamenti ai gruppi religiosi, con budget e modalità d’uso delle risorse soggette a maggiori screening. L’ultimo passo normativo in ordine di tempo è arrivato a maggio, quando come riportato inizialmente da Agenzia Fides è stato lanciato il sistema di verifica online delle identità dei religiosi musulmani, cattolici e protestanti.
Lo stesso meccanismo era stato lanciato già a febbraio per monaci buddisti e taoisti. Si tratta di una sorta di “schedario online” contenente i dati identificativi delle figure religiose delle varie comunità. Dati registrati presso gli apparati cinesi e consultabili dai cittadini che possono in tal modo verificare identità e incarico di tutti i dirigenti religiosi. Il sistema di ricerca di informazioni è disponibile sui siti web ufficiali dell’Associazione islamica della Cina, della Chiesa cattolica cinese, del Consiglio cristiano cinese e dell’Amministrazione statale degli affari religiosi.
Le autorità della Repubblica popolare hanno descritto la novità come uno strumento utile a «mantenere il normale ordine religioso, salvaguardare la sana trasmissione» dei contenuti religiosi, e, nel contempo, aiuterebbe anche i credenti cinesi delle diverse comunità di fede a identificare falsi monaci, imam, sacerdoti, pastori e vescovi, «tutelando l’interesse pubblico e i legittimi diritti e interessi dei cittadini».
La stessa esigenza di sinizzazione e controllo di gruppi organizzati la si intravede anche in altre sfere della vita pubblica cinese. Per esempio sulle associazioni legate alla comunità LGBTQ+. Nelle scorse settimane, sono stati cancellati diversi eventi collegati alle celebrazioni del Pride. Tra queste, un evento di improvvisazione a tema queer inizialmente previsto a Shanghai per il 4 giugno, data dell’anniversario del dramma di Tiananmen. A Chengdu, invece, uno spettacolo teatrale interattivo è stato cancellato a poche ore dal suo svolgimento.
A maggio, il Beijing LGBT Center ha chiuso i battenti quattro giorni dopo il suo 15esimo anniversario. Due giorni prima della Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, il noto centro della capitale ha comunicato sul suo account WeChat la chiusura dovuta a cause di “forza maggiore”, senza fornire ulteriori dettagli. Le autorità del distretto in cui si trovava il centro hanno spiegato di non essere a conoscenza della situazione, ma ciò che è certo è che la comunità LGBTQ+ di Pechino ha perso un importante punto di riferimento.
Negli scorsi anni, hanno interrotto le attività anche lo Shanghai Pride e il LGBT Rights Advocacy China, impegnato in cause legali per il riconoscimento dei diritti della comunità. Nel 2021 sono stati chiusi diversi gruppi di WeChat, anche se i giovani, hanno trovato altri spazi di dialogo su temi legati a comunità queer e transgender, come per esempio la piattaforma Xiaohongshu (piccolo libretto rosso), su cui l’hashtag #transgender conta ben oltre 4 milioni di visualizzazioni.
Tra i gruppi presi di mira negli ultimi anni sono entrati anche i milioni di fan e follower delle star del cinema e della televisione. La Commissione centrale per l’ispezione disciplinare ha annunciato di voler mettere ordine alla «caotica» industria dell’entertainment, colpendo le abitudini «malsane» che «instillano valori scorretti» nei giovani.
Uno sforzo che rientra in un vasto programma di salvaguardia della sicurezza politica e ideologica del mondo digitale. Diversi articoli ed editoriali dei media cinesi di questi anni hanno descritto la fan culture come un «culto» che può facilmente diventare un bersaglio di «forze straniere che vogliono dividere la società cinese», come ha scritto il Global Times.
Strette e manovre di governo e autorità non sembrano comunque tanto motivate da odio religioso o sentimenti omofobi, quanto dalla necessità di maggiore controllo di tutto ciò che potenzialmente possa rendere gruppi o comunità portatori di istanze politico-sociali in grado di turbare l’armonia e la sicurezza nazionale, il mantra della “nuova era” di Xi.